Agorà o museo? Una proposta di legge per l’accesso aperto
La Commissione cultura della Camera dei Deputati riprende in questi giorni la discussione sul tema dell’accesso aperto alla informazione scientifica attraverso audizioni informali nelle quali saranno sentiti esperti sui temi dell’accesso aperto e della scienza aperta
Maria Chiara Pievatolo
Cinque anni dopo la approvazione della legge 112/2013, recante «Disposizioni urgenti per la tutela, il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano», e contenente alcune norme dedicate alla promozione dell’accesso aperto (Open Access) agli articoli scientifici frutto di ricerca finanziata per una quota pari o superiore al 50 per cento con fondi pubblici, si riapre la discussione sulle regole e modalità di attuazione di un principio che guida ormai da tempo tutte le azioni della Commissione Europea. La Commissione cultura della Camera dei Deputati riprende in questi giorni la discussione sul tema dell’accesso aperto alla informazione scientifica attraverso audizioni informali nelle quali saranno sentiti esperti sui temi dell’accesso aperto e della scienza aperta. Pubblichiamo di seguito le osservazioni alla proposta di legge dell’On. Gallo rese da Maria Chiara Pievatolo, in veste di esperta di Open Access e componente dell’associazione AISA.
1. Scienza aperta: non solo una questione di soldi
La proposta di legge del deputato Luigi Gallo del Movimento 5 Stelle affronta un problema tanto importante quanto – almeno in Italia – trascurato e travisato: l’accesso di tutti noi alle pubblicazioni scientifiche.
Che siano leggibili solo a pagamento è uno scandalo ingiustificato e persistente. Gli autori scientifici, infatti, non ricevono un compenso dalle riviste di settore per quanto vi scrivono; e non lo ricevono i colleghi che, con i loro pareri, selezionano i testi meritevoli di essere pubblicati. Non sono gli editori a pagare il loro stipendio e a finanziare la loro ricerca, bensì le tasse e le imposte degli studenti e dei contribuenti italiani, i quali, però, devono pagare di nuovo gli editori o tramite il denaro pubblico speso dalle biblioteche per gli abbonamenti, o direttamente di tasca loro per accedere ai risultati di quanto è stato prodotto con i loro soldi. Non è solo e in primo luogo una questione di denaro: la liberazione della ricerca dal segreto, affinché le tesi cui la ricerca approda siano pubblicamente sperimentabili, dimostrabili e discutibili, è un aspetto essenziale della rivoluzione scientifica moderna. Come potremmo, per esempio, essere ragionevolmente certi dell’efficacia e della sicurezza di un vaccino se i risultati della sua sperimentazione e i dibattiti sul loro significato fossero accessibili solo a pochissimi?1
Il testo scientifico – qualcuno potrebbe obiettare – anche quando non viene stampato su carta, ma diffuso on-line, richiede pur sempre la mediazione di un servizio editoriale. Perché la sua remunerazione dovrebbe essere scandalosa? E perché mai le biblioteche, se i prezzi di abbonamento sono troppo alti, non abbandonano gli editori più esosi per rivolgersi a concorrenti piùconvenienti? O, ancora, perché i ricercatori non si lasciano alle spalle le multinazionali dell’editoria per pubblicare i loro articoli suiserver che molte università ed enti di ricerca, italiani e europei, rendono disponibili, usando al meglio quanto – in Italia e in Europa – esiste già?
George Monbiot, in un recentissimo articolo su “The Guardian”, ricorda che metà della ricerca mondiale viene pubblicata da cinque concentrazioni editoriali2 – nessuna delle quali italiana – vale a dire Reed Elsevier, Springer, Taylor & Francis, Wiley-Blackwell e l’American Chemical Society, la cui posizione dominante rende loro possibile imporre alle biblioteche prezzi di abbonamento altissimi, mentre i lettori che non ne sono utenti possono consultare singoli articoli on line solo pagando cifre esorbitanti. Un malato di cancro che volesse compiere scelte informate sulle proprie alternative terapeutiche finirebbe per dover sborsare parecchie migliaia di euro.
L’Università statale di Milano, d’altro canto, ha una sua piattaforma di riviste che possono essere lette gratuitamente da tutti il cui costo è di 6000 euro l’anno. Un’università di dimensioni paragonabili, quella di Padova, pagherà invece l’accesso quinquennaledei suoi docenti e studenti alle riviste in formato elettronico edite dall’oligopolista Elsevier con 7.386.312 euro, a cui va aggiunto un4% di IVA.3 Non a caso, i grandi consorzi bibliotecari di alcuni paesi europei, in Germania, Francia e Svezia, spalleggiati dalle conferenze dei rettori locali, stanno cambiando orientamento: gli editori scientifici commerciali vanno trattati come fornitori di servizi per una comunità scientifica che desidera mettere le sue opere a disposizione di tutti, senza imporre costi ai lettori.4 Se questi servizi sono offerti a prezzi troppo alti, conviene smettere di negoziare con loro per pubblicare ad accesso aperto altrove.
Ribellarsi così in Italia era e rimane difficile, e non solo per timidezze non del tutto spiegabili,5 ma per l’effetto combinato delle norme sul diritto d’autore e del sistema di valutazione della ricerca imposto dallo Stato, tramite un’agenzia di nomina e controllo governativo, l’ANVUR. Le scienze fisiche, mediche, matematiche e tecnologiche6 vengono infatti valutate tramite algoritmifondati sul numero di citazioni ricevute dai loro articoli. Il loro conteggio, oggetto di una disciplina recente detta bibliometria, avviene sulla base di due banche dati proprietarie delle quali la prima, Scopus, appartiene, in conflitto di interessi, all’editore oligopolista Elsevier, e la seconda, Clarivate Analytics, più nota col suo nome originario, ISI,7 a un fondo d’investimento speculativo asiatico. L’uso di queste banche dati è stato ed è all’origine della spirale dei prezzi dei periodici che affligge le nostre biblioteche: le riviste in esse incluse sono infatti troppo importanti per la carriera dei ricercatori perché si possa rinunciare ad acquistarle. Anche se questo sistema, fuori d’Italia, è sempre più spesso in discussione, le nostre Università e i nostri enti di ricerca, sottomessi alla bibliometria di Stato, non hanno la forza per farlo.8 E gli autori loro dipendenti non hanno per lo più lacapacità – e talvolta neanche la consapevolezza – di negoziare con gli editori per evitare di ceder loro, e gratis, la totalità dei propri diritti, a scapito di tutti noi – lettori, ricercatori, pazienti, studenti, cittadini.
2. La legge del 2013 e suoi limiti9
Non volendo o non potendo sciogliere i due vincoli che incatenano la maggioranza dei ricercatori agli oligopoli editoriali – la valutazione di Stato e il copyright – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 4 della legge 112/2013 percorrono una via obliqua, quella della tutela degli articoli scientifici in quanto beni culturali.10 Anche se, cinque anni fa, questo strada forse poteva apparire obbligata,essa espone i testi scientifici al rischio di essere rappresentati come oggetti da museo, da visitare e conservare come tali, e non come discorsi di persone impegnate in una conversazione ancora in corso, da leggere,11 discutere, criticare, rielaborare e collegare tempestivamente.
La norma obbliga i “soggetti pubblici preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti della ricerca scientifica” a promuovere l’open access ai risultati della ricerca finanziata almeno al 50% con fondi pubblici, o favorendo la pubblicazione degli articoli che li documentano in riviste che pubblicano ad accesso aperto, o tramite la ripubblicazione senza fini di lucro in archivi elettronici istituzionali o disciplinari, entro 18 mesi dall’uscita per le aree scientifiche, tecniche e mediche, e 24 per le scienze umane e sociali.
I termini della Raccomandazione europea 2012/417/UE del 17 luglio 2012, in conformità alla prassi internazionale, eranoinvece rispettivamente di 6 e di 12 mesi. In Italia, il legislatore, per motivi poco chiari, li ha raddoppiati per le discipline umane e sociali e addirittura triplicati per le altre scienze. Molto appropriatamente il disegno di legge Gallo accorcia questi termini,riconducendoli alle scadenze europee.
Il dettato “obbligatorio e programmatico” della norma non tocca il copyright vigente e non si rivolge ai ricercatori, bensì alle istituzioni che li finanziano. Queste ultime devono elaborare propri regolamenti e affrontare – nel silenzio della legge – complicati negoziati con gli editori. Per quanto gli oneri di un accesso aperto così concepito spettino alle istituzioni, ne fanno le spese anche i ricercatori, non solo perché la complessità amministrativa ricade indirettamente su di loro, ma soprattutto perché, a dispetto di ogni retorica sul diritto d’autore, nel gioco asimmetrico fra istituzioni ed editori gli autori hanno – come nell’età dei privilegio librario – un ruolo esclusivamente passivo.
Una delle più risalenti e diffuse giustificazioni del diritto d’autore si fonda sul riconoscimento della creatività individuale: il mio contributo alla cultura umana merita di essere compensato socialmente con l’attribuzione di un monopolio temporaneo sul suo sfruttamento economico. La legge del 2013, però, sembra assimilare gli autori scientifici ai defunti le cui opere sono raccolte e conservate nei musei e sono sfruttate da terzi almeno fino a settant’anni dalla loro morte. In effetti la differenza fra i vivi e morti è ben poca in un sistema che riduce i ricercatori a meccanici addetti alla ricerca, i cui testi, fuori dal loro controllo, regalati agli oligopolisti dell’editoria commerciale, vengono valutati, indipendentemente dal loro contenuto, sulla base di (meta)dati proprietari e di algoritmi di stato.
4. Il disegno di legge Gallo
Luigi Gallo cerca meritoriamente di modificare una regolamentazione che, già dopo cinque anni, appare inadeguata. Ci si deve però chiedere se non sarebbe preferibile ricominciare da capo, invece che affaticarsi a raddrizzare la disciplina obliqua e timorosarisalente al 2013. La sua lettera, infatti, non imbalsama solo gli autori, ma anche la forma delle loro opere, parlando esclusivamente di riviste e di articoli, come se queste forme di pubblicazione, fiorite nell’età della stampa, fossero l’espressione essenziale della scienza. Il disegno di legge Gallo, appropriatamente, aggiunge agli articoli anche “l’eventuale materiale audio e video” ad essi allegato. La rivoluzione digitale però – dagli ultimi decenni del secolo scorso – sta moltiplicando i generi letterari con i quali un ricercatore può esprimersi, tanto che è possibile immaginare un mondo senza più riviste né articoli, o con riviste e articoli alterati al punto di risultare quasi irriconoscibili.12 La legge del 2013, anche se emendata, rischia di rimanere involontariamente retrograda.
Similmente retrograda può apparire la menzione delle due vie all’open access, quella “verde” del deposito di articoli originariamente usciti in riviste ad accesso chiuso in archivi accessibili a tutti e quella “aurea” delle riviste nativamente ad accesso aperto. Il movimento per l’accesso aperto, infatti, aveva pensato queste due vie come espedienti per aprire la scienza in un momento in cui, proprio come nella tarda età della stampa, il medium privilegiato della comunicazione scientifica era ancora l’articolo su rivista.13Non sarà sempre necessariamente così: gli archivi aperti, per esempio, potrebbero diventare il luogo della prima pubblicazione, o lasciando il compito della selezione, segnalazione e revisione a overlay journal che operano su oggetti già pubblicati, o contenendo essi stessi dei moduli per discuterli, criticarli e valutarli, o qualcos’altro ancora che non riusciamo a immaginare.14 In una simile situazione, una norma che menzionasse testi, audio e video senza ulteriori specificazioni sarebbe meno esposta all’obsolescenza.
Un simile mancanza di generalità e astrattezza si ravvisa, in particolare, nel comma 2-ter del disegno di legge Gallo, che riguarda i testi pubblicati in riviste originariamente ad accesso aperto:
2-ter. È nullo il contratto di edizione se l’editore della pubblicazione realizzata secondo le modalità di cui al comma 2, lettera a), ha ceduto il diritto di sfruttamento a terzi. Il contratto di edizione è altresì nullo se uno o più autori della pubblicazione realizzata secondo le modalità di cui al comma 2, lettera b), hanno ceduto il diritto di sfruttamento esclusivo.
La preoccupazione che ha probabilmente ispirato l’estensore è che editore e autore siano esposti alla tentazione di “richiudere” i testi usciti in riviste ad accesso aperto cedendone i diritti di sfruttamento a terzi. La loro libertà contrattuale, perciò, viene limitata: questa clausola, però, oltre a introdurre una disparità di trattamento a favore di coloro che, pubblicando originariamente ad accesso chiuso, seguono la via “verde” dell’auto-archiviazione, non impedisce che l’editore “richiuda” gli articoli riservando il diritto di sfruttamento esclusivo a se stesso. Una simile modifica, se diventasse legge, rischierebbe di essere peggiorativa rispetto alla pur discutibile disciplina esistente: gli editori potrebbero, infatti, rendere gli articoli accessibili solo temporaneamente, a scopi pubblicitari, per poi far pagare i lettori come e più delle riviste ad accesso chiuso.
4. Per i vivi, non per i morti: la proposta dell’AISA
La letteratura scientifica è tenuta prigioniera da due catene: il privilegio editoriale e la valutazione di Stato. Una legge che intenda promuovere la scienza aperta senza cercare di spezzarle rischia di essere poco efficace se non addirittura controproducente.
L’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta suggerisce di sciogliere la catena del privilegio editoriale per favorire l’autore, che oggi, nel gioco della comunicazione scientifica, è la parte più debole, emancipando l’uso pubblico dei suoi testi. Come già fatto in Germania, nei Paesi Bassi e in Francia,15 basterebbe aggiungere un articolo alla legge sul diritto d’autore per assicurare a chi fa ricerca con un prevalente finanziamento pubblico il diritto di ripubblicare gratuitamente i suoi testi, immediatamente se il suo editore è ad accesso aperto o dopo un periodo di tempo non superiore a un anno se è ad accesso chiuso. In questo modo i ricercatori potrebbero mettere le loro opere a disposizione di tutti, tramite la rete degli archivi aperti istituzionali e disciplinari, spontaneamente o su invito degli enti d’appartenenza, senza le complicazioni burocratiche e negoziali della disciplina attuale.
Mentre la legge tedesca riguarda solo gli articoli, la proposta dell’Aisa include anche i libri, che spesso, soprattutto nelle scienze umane e sociali, sono finanziati interamente dal pubblico; e però, come spiegato sopra, potrebbe essere resa più generica, coinvolgendo anche audio e video di carattere scientifico.
Art. 42-bis (L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio)
L’autore di un’opera scientifica che sia il risultato di una ricerca interamente o parzialmente finanziata con fondi pubblici, come un articolo, una monografia o un capitolo di un libro, ha il diritto di riprodurre, distribuire e mettere a disposizione gratuita del pubblico la propria opera nel momento in cui l’editore l’abbia messa a disposizione gratuita del pubblico o dopo un ragionevole periodo di tempo, comunque non superiore a un anno, dalla prima pubblicazione. L’autore rimane titolare di tale diritto anche qualora abbia ceduto in via esclusiva i diritti di utilizzazione economica sulla propria opera all’editore o al curatore. L’autore nell’esercizio del diritto indica gli estremi della prima edizione, specificando il nome dell’editore.
Le disposizioni del primo comma sono di ordine pubblico e ogni clausola contrattuale che limiti il diritto dell’autore è nulla.
Per l’Aisa il diritto d’autore deve tornare a essere in primo luogo il diritto dell’autore: il cosiddetto “copyright editoriale” è un diritto soltanto derivato che diventa un privilegio da superare quando non è più al servizio della comunità scientifica allargata e delle sue esigenza di pubblicità. La libertà delle arti e delle scienze e del loro insegnamento, tutelata dall’articolo 33 della costituzione italiana, non può essere subordinata a interessi meramente amministrativi e commerciali.
A differenza che nel disegno di legge Gallo, il limite posto alla libertà contrattuale non è a garanzia di una politica, ma di un diritto costituzionalmente riconosciuto. Come possono essere libere le arti, le scienze e il loro insegnamento se artisti, scienziati e docenti sono incatenati al privilegio editoriale?
Nella proposta dell’AISA lo spazio delle arti, delle scienze e dell’insegnamento non è il museo della legge del 2013 bensì un’agorà in cui persone ancora vive insegnano, imparano, dimostrano, discutono, si criticano e si valutano da pari a pari,16 diffondendo “lo spirito di una stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano a pensare da sé” (I. Kant, AK VIII, 36) Molti – studenti, insegnanti, inventori, appassionati, imprenditori, pazienti e medici di base – hanno un immediato interesse per questo o quel risultato della ricerca, ma a tutti quanti rifiutano ridursi a ingranaggi di una macchina dallo scopo oscuro preme partecipare, come possono e vogliono, all’esercizio d’indagine. In questo senso, la libertà dei ricercatori è la libertà di tutti noi: e in questo senso, per i vivi e non per i morti, per l’agorà e non per il museo, merita di essere riconosciuta e difesa dal parlamento italiano.
1 Non dobbiamo dimenticare che l’articolo che diede origine all’allarme sulla vaccinazione anti-morbillo fu pubblicato, per essere ritrattato solo dodici anni dopo, da “The Lancet”, costosa e prestigiosa rivista ora in mano alla multinazionale dell’editoria scientifica Elsevier. Come ho notato il matematico Timothy Gowers, un sistema di pubblicazione e di discussione più aperto e accessibile avrebbe risparmiato a tutti noi un lungo e non innocuo conflitto (“Peer review: the end of an error?”, Times Literarary Supplement, October 24, 2017)
2 Sugli oligopoli editoriali si veda Vincent Larivière, Stefanie Haustein, Philippe Mongeon, “The Oligopoly of Academic Publishers in the Digital Era”, PLOS, June 10, 2015.
3 Si vedano i commenti di Paola Galimberti e Patrizio Tressoldi a Paola Galimbert, “I costi della informazione scientifica. Possiamo parlarne?”, Roars, 13 luglio 2018. Anche altre università italiane – per esempio quella di Bologna, quella di Firenze, quella di Torino, quella di Trento e quella di Roma Tre – hanno piattaforma analoghe, o pubblicano collane di volumi ad accesso aperto sotto licenza Creative Commons.
4 Paola Galimberti, “Consorzi per l’acquisto di risorse elettroniche. E’ possibile dire no alle condizioni poste dagli editori?”,Roars, 10 aprile 2018. SPARC pubblica una pagina che tiene traccia di questo nuova fermezza negoziale da parte delle biblioteche e dei consorzi bibliotecari fuori d’Italia, nel mondo.
5 “Elsevier: le università tedesche sospendono la trattativa. La CRUI invece si sdraia”, Roars, 6 agosti 2018.
6 Le scienze umane e sociali vengono invece valutate sulla base di due liste di riviste, rispettivamente scientifiche e scientifiche d’eccellenza stilate dall’ANVUR: a dispetto del primo comma dell’articolo 33 della costituzione, in Italia non è, informalmente, la comunità degli studiosi a stabilire che cosa è scientifico e che cosa no, che cosa è eccellente e che cosa no, bensì un’agenzia di nomina governativa.
7 L’Institute for Scientific Information (ISI) ha inventato e commercializzato il più antico degli indici bibliometrici, il fattore d’impatto (JIF), sul quale vale ancora la pena leggere il saggio informativo e critico del matematico Alessandro Figà Talamanca “L’Impact Factor nella valutazione della ricerca e nello sviluppo dell’editoria scientifica”, 2000, ora ripubblicato da Roars.
8 Nel momento in cui questo articolo viene scritto, fra gli italiani solo il privato IRCCS Ospedale San Raffaele e tre società scientifiche, la Società di Ortoflorofrutticultura Italiana, la Società Italiana di Biologia Vegetale e l’Associazione Italiana di Psicologia hanno firmato la San Francisco Declaration on Research Assessment che prende posizioni fortemente critiche contro l’uso della bibliometria per la valutazione della ricerca.
9 Questa sezione richiama parte di quanto già scritto presentando su “Roars” la proposta di modifica della legge sul diritto d’autore preparata dall’AISA.
10 Non a caso la legge convertiva un decreto intitolato Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo.
11 Oggi la lettura non comprende solo quella immediata degli esseri umani, ma anche quella mediata da programmi di text and data mining.
12 Si veda per esempio M.C. Pievatolo, “Dopo le riviste: il futuro dell’accesso aperto”, Bollettino telematico di filosofia politica. 16 novembre 2015: in generale la tecnologia della stampa favoriva testi lunghi e relativamente autosufficienti, mentre la rete potrebbe aver bisogno di testi più brevi ma fortemente connessi in piste che permettano di percorrere sensatamente la foresta dell’informazione.
13 Come nota Jean-Claude Guédon (Open access – toward the internet of the mind, 2015), la distinzione fra via verde e via aurea fu creata allo scopo di far accettare l’Open Access in un ambiente ancora legato a riviste e articoli, nel quali igli autori, stretti fra le biblioteche con le loro esigenze di bilancio e gli editori con le loro esigenze di profitto, venivano trattati come componenti passivi.
14 Se Internet fosse venuta a esistere prima della ricerca scientifica, gli studiosi avrebbero cominciata a condividere i propri risultati in rete, e dopo un po’ avrebbero cominciato ad avvertire il bisogno di organizzare questa letteratura. Ma a nessuno sarebbe venuto in mente di ricorrere a un sistema così macchinoso come quello delle riviste a stampa o di una qualche loro imitazione telematica! (R.Poynder, Open and Shut?: The Open Access Interviews: Sir Timothy Gowers, Mathematician, 20th April 2016).
15 Se quattro paesi dell’Unione Europea adottassero una simile disciplina, sarebbe possibile insistere per una disciplina armonizzata in un senso molto diverso da quello della direttiva sul copyright in corso di approvazione che sacrifica sistematicamente il diritto dell’autore e la libertà di parola al privilegio editoriale.
16 Si può immaginare che non tutti gli autori scientifici vorranno approfittare del loro diritto di pubblicazione: ma il semplice mantenere poco accessibile un testo che potrebbe essere libero, e dunque più letto e citato, indicherebbe che essi stessi lo considerano di poco valore e se ne vergognano.
Pubblicato il 24 settembre 2018 sul Bollettino Telematico di Filosofia Politica: https://btfp.sp.unipi.it/it/