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Aprile on line-Il sapere nell'era globale - Conoscenza, tecnica, beni comuni e arretratezze italiane (ne discuterà anche il Cantiere delle riviste sabato prossimo a Roma). Una conversazione con il filosofo Giacomo Marramao

Il sapere nell'era globale Conoscenza, tecnica, beni comuni e arretratezze italiane (ne discuterà anche il Cantiere delle riviste sabato prossimo a Roma). Una conversazione con il filosofo Giacomo ...

23/11/2005
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Aprileonline

Il sapere nell'era globale
Conoscenza, tecnica, beni comuni e arretratezze italiane (ne discuterà anche il Cantiere delle riviste sabato prossimo a Roma). Una conversazione con il filosofo Giacomo Marramao
Marzia Bonacci

Il nuovo assetto globale del mondo, le sfide che la globalizzazione ha posto e imposto alla conoscenza e alla tecnica, l'idea di un sapere che sia condiviso e che risponda al melting pot culturale ed etnico, la speranza che la conoscenza diventi strumento per l'integrazione e la difficile condizione della ricerca italiana. Di questo, tra digressioni filosofiche e riflessioni politiche, abbiamo parlato con Giacomo Marramao, professore ordinario di Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell'Università di Roma Tre, direttore scientifico della Fondazione Basso-Issoco e membro del Collège International de Philosophie di Parigi. Lo abbiamo fatto anche perché il Cantiere delle riviste (promosso da "aprile" e altre testate) ha indetto per sabato prossimo a Roma un convengo proprio su questi temi (vedi rubrica "il cantiere delle riviste").

Professor Marramao, come si rende possibile la conoscenza come "sapere comune" nell'età globale in cui oggi viviamo?
Nell'età globale vediamo emergere una dimensione che era stata intuita in modo straordinario già da Karl Marx nei "Lineamenti fondamentali per la critica dell'economia politica", cioè nell'abbozzo del futuro "Capitale", più conosciuto come "Grundrisse". Marx aveva compreso che un capitale che tende a divenire globale opera un passaggio dalla dimensione del sapere come dimensione puramente culturale, intellettuale al sapere come forza produttiva. Il Marx dei "Grundrisse" ha colto la dimensione della scienza e del sapere nella sua trasformazione in forme disciplinari articolate, cioè in forza produttiva. Questo oggi lo vediamo clamorosamente confermato nella globalizzazione, dove senza una capacità di produrre sapere non si determina nemmeno lo sviluppo tecnico-scientifico. La produzione materiale, il costruire un ponte o un'auto per esempio, ha come sua base un sapere incorporato ad elevatissima intensità. Naturalmente, questo presuppone la necessità sociale dell'appropriazione della conoscenza. Infatti proprio quest'ultima nel mondo globalizzato tende a divenire sempre più tecnico-efficace, sempre più specializzata e, dunque, controllata dall'elite di settore, quella che possiede il "know how" (sapere come) di quello spazio e non di altri. Ciò pone il problema di una politica che sia innanzitutto legata alla cultura, cioè che sia in grado di spezzare questa espropriazione del sapere da parte di oligarchie separate e che innesti un processo di riappropriazione della conoscenza.

Esiste dunque un rapporto fra sapere e democrazia?
Certo che esiste ed è indispensabile. Oggi, più di ieri, ci accorgiamo che la democrazia senza una socializzazione delle conoscenze, che sia capace di sviluppare una vera e propria "società del sapere", degenera in quell'ibrido mostruoso che Predrag Matvejevic chiama "democratura". Molte democrazie odierne dell'età globale sono appunto democrature, che di democratico hanno solo la facciata esteriore come l'appuntamento del voto. Per il resto sono realtà dominate dall'elite del sapere, della tecnica o della comunicazione. In Italia questo trend generalizzato nel mondo occidentale si è manifestato in forme estreme, addirittura caricaturali.

Lei ha parlato del "sapere comune" come problema di partecipazione sociale allargata alla conoscenza e certamente questo è un aspetto importante del discorso. Ma se dovessimo caratterizzare questo "sapere comune" in rapporto alla questione etnico-culturale, cioè alla multiculturalità, come lo definirebbe?
Sono per una società in cui l'universale si declina in molti modi, cioè in base al criterio della differenza. L'universale infatti ha cessato di essere identitario, omogeneo, "ridutio ad unum, assimilazionista. Oggi al contrario si dovrebbe parlare di pluriverso più che di universo. Però non dobbiamo scambiare questo progetto filosofico-politico, che io definisco "universalismo delle differenze", per l'ideologia del multiculturalismo, che ha preso piede nella società nord-americana, quella statunitense e mutatis mutandis canadese. Questo perché la società multiculturale che si è realizzata in questi paesi si è tradotta in "serie di ghetti contigui", cioè in una realtà sociale in cui i ghetti crescono uno accanto all'altro, in cui i gruppi culturali formano isole fra loro non comunicanti, monadi senza porte ne finestre. Il modello della tolleranza multiculturale nordamericana è stato criticato da molti filosofi e studiosi fra cui Slovoj Zizek, che ha condotto analisi radicali in proposito. Io e Zizek condividiamo l'idea che sia proprio questa tolleranza multiculturale l'humus più propizio per la nascita dei fondamentalismi, perché in una realtà in cui ciascuno è isolato e si relazione come "stato" a sé si rende più facile lo sviluppo di tendenze estremiste. Per dirla con Gorge Orwell e con la sua "Fattoria degli animali": c'è sempre un gruppo che pretende di essere più uguale degli altri.

Che tipo di sapere è necessario in una società pluralista e non multiculturale che vuole accogliere la differenza senza il rischio di creare "ghetti contigui"?
Un sapere che sia stato valorizzato ai massimi livelli e che valorizzi anche la tecnica. Credo, a differenza di molti filosofi heideggeriani contemporanei, che il sapere scientifico e la tecnica siano un fattore imprescindibile di liberazione umana. In questo senso io sono con Karl Marx contro Martin Heidegger.
Non possiamo immaginare un processo di liberazione delle facoltà e delle risorse umane senza lo sviluppo tecnico, senza una tecnica che sia messa al servizio della liberazione dei singoli. Naturalmente esiste una degenerazione del sapere scientifico in potere tecnocratico esercitato oppressivamente, ma non è negando la tecnica tout court che ce ne libereremo. Walter Benjamin e Karl Marx ci hanno insegnato che la tecnica, quando diventa chiave della felicità e non apparato oppressivo, acquista un valore inestimabile. Questa rivalutazione del sapere di cui parlo coinvolge non solo la conoscenza tecnico-scientifica, ma anche il cosiddetto sapere formativo umanistico. Scienza e tecnica infatti sono solo una parte della cultura umana, perciò si rende importante il sostegno alla conoscenza umanistica attraverso cui potremo formare individui capaci di collegare settori del sapere separati, in grado di rintracciare isomorfismi e interconnessioni fra le diverse forme conoscitive oggi divise e autonome. Dobbiamo creare una sfera pubblica democratica che sia plurale e che accolga le differenze socio-culturali e in cui queste stesse differenze, però, non si limitino ad un riconoscimento statico, ma dinamico: i diversi gruppi umani devono entrare in contatto, devono confrontarsi. Non voglio utilizzare il termine dialogo che a volte si colora di troppo marcato irenismo; preferisco parlare di confronto e perfino di conflitto: si impara e ci conosce anche confliggendo, anche urtandosi. La politica e la sfera pubblica devono favorire questo confronto fra i diversi gruppi umani, un confronto che nasca anche "ad onta del dialogo" affinché le differenze e le ostilità non vengano messe fra parentesi, con il rischio conseguente di riemergere in modo violento, ma al contrario trovino espressione.

Professore, in Italia esiste il problema della ricerca e della "fuga dei cervelli" che stenta a trovare risposta. Che idea si è fatto in proposito?
Noi in Italia rischiamo di diventare il fanalino di coda dell'Europa perché non si dà una vera espansione delle forze produttive senza investimento nel sapere. L'ideologia berlusconiana, che ha permeato l'Italia nell'ultimo decennio e che ha proposto la retorica delle tre "I" (inglese, internet e impresa), non ha saputo investire nella ricerca neanche da un punto di vista capitalistico serio. Questo, per una società che ancora e nonostante tutto occupa il 5°-6° posto dell'economia globale, è un dato profondamente allarmante