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AprileOnLine: La sinistra e la tecnica

Licenziato dal Consiglio dei ministri il Dpef. Un programma diligente, ma la politica dov'è? Nane Cantatore

08/07/2006
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Aprileonline

I documenti di programmazione economica e finanziaria, noti con la cacofonica sigla Dpef, hanno un’importanza tutta loro: si tratta di testi indicativi, che non hanno un impatto immediato ma che, anticipando le finanziarie successive, forniscono delle indicazioni di programma sulle quali si orientano le successive mediazioni e gli infiniti aggiustamenti attraverso cui si arriva ai fatti.
Ancora più importante, allora, un caso come questo, in cui il Dpef presentato da Padoa Schioppa vorrebbe avere una valenza di legislatura e che quindi assume tutti i connotati di un vero e proprio manifesto di governo, peraltro ad opera di uno dei suoi esponenti più autorevoli.
Qui, a breve distanza dal decreto Bersani, si misura allora la reale estensione, e soprattutto la profondità delle scelte di fondo del governo di centrosinistra; un governo che si è assunto la duplice missione di far ripartire lo sviluppo e di risanare i conti, rispetto alla quale tutto il resto passa in secondo piano.
Intendiamoci, sono obiettivi importanti, difficili e meritori, ma sono anche obiettivi scarsamente connotati. Ogni governo di qualsiasi Paese democratico e sviluppato ha, o dovrebbe avere, la priorità di gestire decentemente la spesa e di aiutare la crescita; ma il senso di queste scelte si determina quando si tratta di definire il come e il perché.
Da questo punto di vista, la lotta alle rendite di posizione è un obiettivo chiaramente "di sinistra" nel senso che tende a ridistribuire il reddito (e questa è una scelta della sinistra classica,) e ad allargare le opportunità (e questa è la ragion d’essere della cosiddetta nuova sinistra laburista o socialdemocratica, di scuola britannica e svedese); questo è anzi il punto, più ancora che quello della lotta alla rendita finanziaria, in cui queste due anime della sinistra possono incrociarsi. Se questo vale per il decreto Bersani, le misure annunciate da Padoa Schioppa sembrano, almeno per il momento, caratterizzate da un segno decisamente neutralista: intervento sulle centrali di spesa, nel senso di una razionalizzazione organizzativa piuttosto che del taglio di posti, investimenti nell’industria avanzata, nella filiera agroalimentare e nel turismo, per intervenire su entrambi i fronti.
Resta in piedi il meccanismo della concertazione, che dovrebbe essere decisamente rafforzato dal taglio di registratura del programma, per cui si apre una stagione di confronti con sindacati e Confindustria che dovrebbe servire a capire con maggior precisione dove spendere e dove tagliare, mentre l’importo della manovra, che dovrebbe aggirarsi sui 35 miliardi, non sembra né troppo né troppo poco.
Al di là degli allarmi sui tagli allo Stato sociale, che sono ancora tutti da verificare, quello che colpisce è l’idea, troppo spesso celebrata in questo Paese, che una buona amministrazione sia di per sé rivoluzionaria, e per ciò stesso una cosa di sinistra. In realtà questo mantra è quanto di più pericoloso, perché finisce inevitabilmente per favorire l’idea che esiste qualcosa come una buona amministrazione neutrale, a prescindere dalle sue scelte, e che la politica economica, vale a dire il nucleo centrale di ogni politica in tempo di pace, possa volare basso, rinunciando a ogni aspirazione di cambiare davvero il sistema sociale.
L’Italia ha bisogno di una scossa decisa, ma questa scossa non può venire solo dall’aggiustamento dei conti, obiettivo senz’altro lodevolissimo ma certo un po’ anodino: è necessario intervenire sui centri di formazione del reddito nazionale, invertendone lo spostamento verso la rendita, ed è necessario riqualificare la funzione del pubblico, passando anche attraverso la partecipazione dei cittadini e delle loro organizzazioni, perché possa svolgere una funzione guida nello sviluppo economico.
Si tratta, del resto, di elementi ben presenti nel dna culturale del ministro dell’Economia, che proprio nel modello scandinavo ha trovato un punto di riferimento centrale; ma si tratta anche di un registro sostanzialmente assente nel Dpef, che rischia di incontrare il suo maggior limite proprio in questa mancanza di incisività, e nella conseguente riduzione della politica economica all’esercizio, quasi notarile, dell’adeguamento ai parametri del patto di stabilità.
Rispetto a questo punto, valgono ancora meno le obiezioni della sinistra della coalizione, che rischia, ancora una volta, di assumere una posizione di tutela dell’esistente, e dunque per definizione subalterna, rifiutando ogni misura di razionalizzazione della spesa sociale. Il sistema va riformato, e radicalmente: questa sarebbe la vera politica di sinistra. Speriamo che qualcuno, prima o poi, voglia essere all’altezza di questa sfida.