Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » AprileOnLine: Le Cenerentole del sapere

AprileOnLine: Le Cenerentole del sapere

Riflessioni. Nel dibattito sulla ricerca italiana le scienze umanistiche sono spesso dimenticate. Alla base di questa discriminazione, un infondato pregiudizio: non producono ricchezza

07/07/2006
Decrease text size Increase text size
Aprileonline

Giovanni Lombardi*

I temi della cultura, della ricerca, dell’innovazione non sono una delle tante urgenze del Paese, ma un nodo decisivo e una cartina di tornasole per il futuro dell’Italia. Si tratta però anche di una sfida avvincente per una classe politica elevata a incoraggiare e a indirizzare questo futuro attraverso spazi di libertà e di confronto, e per gli studiosi e la società italiana chiamati ad una rinnovata partecipazione democratica: senza questo quadro valoriale, ha poco senso parlare sia di ricerca, sia di politica.
Sulla ricerca, la scuola e l’università c’è una riflessione preziosa, anche mordace e non priva d’ironia, come quando Walter Tocci (Forum DS su Università e Ricerca, Roma, 12 giugno 2006) presenta l’ipotesi di una terza legge sui Concorsi universitari quale riproposizione dagli esiti incerti della sequenza liscia gassata o Ferrarelle. Perciò, tralascio tanti punti condivisibili del dibattito per esprimere semplici perplessità su una discussione non sempre centrata negli obiettivi e nei percorsi.
La ricerca è argomentata e percepita come sinonimo di ricerca tecnologica/scientifica. Così si affronta un problema complesso guardando solo ad un suo aspetto particolare; come credere che la mano della ricerca sia fatta da un dito. Quel dito potrà essere il più scientifico e tecnologico, il dito del progresso, il dito manager, ma senza le altre dita che fare di questo dito “competitivo”?
La ricerca non è solo ricerca scientifica. Inoltre, sebbene il termine “scientifico” suoni autorevole nel marketing politico-mediatico, il suo significato è tutt’altro che ovvio ed è dibattuto tra gli addetti ai lavori.
La ricerca scientifica fa cassa, innova, rilancia la competitività? In verità: solitamente ha tempi lunghi; non fa cassa nell’immediato, ma costa; e non si traduce automaticamente in competitività.
Invenzione e innovazione sono cose diverse. L’innovazione riguarda il modo in cui vengono adottate le invenzioni dalla collettività e la stima sociale verso l’innovatore: il nostro paese applica poco le invenzioni.
E’ buona regola diffidare di chi inneggia alla ricerca, ma non stima il ricercatore (neppure economicamente), di chi inneggia all’innovazione, ma non stima l’innovatore.
Comunemente si distingue tra ricerca di base e ricerca applicata, attribuendo a quest’ultima la capacità celere di creare tornaconti economici e di fare innovazione. In verità, la ricerca applicata è avvantaggiata dalla ricerca di base. La ricerca e la diffusione dei saperi implicano spazi di libertà e di creatività delle persone coinvolte: talento e/o competenza non devono essere mortificati dall’impellenza dell’applicabilità, ma poter esprimersi in modo appropriato. Inoltre, le applicazioni spesso nascono da momenti intermedi o parziali di un procedimento investigativo che punta altrove (cfr. le applicazioni finanziarie della teoria dei giochi e le vicende che portarono al Nobel di J. Nash) e da contingenze e/o accidenti (da manuale il caso della penicillina del Nobel A. Fleming). Errori e insuccessi hanno poi un ruolo fondamentale nella ricerca e nella sedimentazione dei saperi.
Senza divagare, occorrono soldi. Specie per gli istituti che richiedono grandi investimenti. Non c’è bisogno d’inventare competizioni tra discipline. Se la ricerca e la cultura hanno un valore per la società, allora devono essere sostenuti. Se non sono riconosciuti, siamo di fronte ad una crisi politica e di civiltà di cui temere le conseguenze. L’erogazione di fondi intesi come accessori o residuali rispetto alle esigenze di bilancio è una drammatica spia di ciò.
Si può favorire il sostegno spontaneo dei cittadini ad iniziative scientifiche, culturali e sociali, ma è responsabilità politica scegliere indirizzi, coltivare spazi di dialogo, pianificare strategie di spesa: la devoluzione dal reddito individuale a favore di questo o quell’ente può non interpretare le esigenze generali del Paese, far ciò sta ai rappresentanti democratici dei cittadini.
Partire dal ritornello dello spender bene suona irridente a chi giornalmente lavora senza risorse. I ricercatori italiani sono tra i più disagiati e meno pagati in Europa e quelli pubblici non meritano neppure una diaria quando si spostano sul territorio nazionale, mentre i meccanismi di spesa e di gestione patrimoniale pagano centralizzazioni assurde e onerose impedendo ai diretti interessati di spendere e investire in modo responsabile, proficuo e calibrato.
Costringere gli studiosi a cercar soldi significa sprecar soldi, stornare energie e intelligenze, mutilare network, svilire annosi processi di acculturazione; significa piegare gli studi alla necessità di intercettare fondi, introducendo nei percorsi d’investigazione logiche estranee, spurie e/o fuorvianti. Nonostante ciò un ricercatore che procuri fondi al proprio ente ha un riconoscimento economico nullo o irrisorio, grane amministrative, nessuna menzione apprezzabile e curriculare dell’impegno sostenuto, tempo sottratto ai propri studi per risultare magari, poi, poco produttivo alla luce delle griglie di valutazione vigenti.
Si dice che l’Italia abbia più del 50% del patrimonio museale, monumentale, archeologico mondiale. Non so come si faccia la conta ma rende l’idea. Allora è grottesco non pensare agli studi “umanistici” come strategici (storici, giuridici, economici, linguistici, ecc.). Strategici in termini economici e geopolitici, strategici nel fare società, nel sollecitare le scienze e l’innovazione, nelle sfide della costruzione europea, del partenariato euromediterraneo, delle trasformazioni sociali, dei media, della governance, delle armonizzazioni legislative, di un’Italia inchiodata alla responsabilità della sua dimensione geostorica nel Mediterraneo. Il giudizio miope sugli studi che “non portano soldi”, cenerentole tra le scienze di cui non sta bene parlar male, andrebbe rivisto, se non ribaltato.
L’Italia è percepita all’estero come un laboratorio privilegiato e uno step formativo imprescindibile (studi artistici, restauro, università storiche); ciò promuove reti internazionali ed empatie tra popoli con ricadute positive in termini economici, culturali e geopolitici, e sostiene il “Made in Italy”.
Scienze e innovazione procedono con lo studio dei linguaggi e dei processi, quindi con gli studi di semiotica, di logica, di psicologia cognitiva, di storia economica, di storia delle tecnologie, di storia e basta, ecc.
Che significa innovazione in un paese con i più bassi indici di lettura nell’occidente? Un saggio del passato diceva che prima di fare (istruire) l’artigiano, bisogna fare (educare) l’homo.
“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (Costituzione Italiana, art. 34). Tra i mezzi c’è l’accesso ai luoghi del sapere. Come parlare di ciò dove le biblioteche sono poco fruibili, non aggiornate, burocratizzate, chiudono presto e nei giorni festivi (negli USA e in Francia molte di esse aprono la domenica per favorire i lavoratori e gli studenti-lavoratori; altrove, come in Spagna, gli orari si estendono alla sera dando alla biblioteca una dimensione familiare e socializzante) e dove gli archivi mancano di inventari, si trema d’inverno e si suda d’estate, manca la carta igienica, mancano accessi per i disabili ecc.
Valutazione o forche caudine della ricerca? Ricercare, innovare significa cambiare o scrutinare posizioni pregresse. Valutazione e referee sugellano il “riconoscimento” dei nuovi studi. Ma i valutatori esprimono e “difendono”, per definizione, posizioni consolidate. Quanto i criteri di valutazione, al di la della buona volontà dei singoli, ostacolano posizioni autonome o critiche? Quanto si rischia di sovvenzionare conservazione e baronie? Quanto si rischia di incoraggiare una produzione scientifica che mastica posizioni acquisite e che punta su quantità/frequenza delle pubblicazioni, incapace di affrontare studi di largo orizzonte con ricadute meno apprezzabili sotto il profilo quantitativo? Scansare la riflessione su ciò non risolverà il problema. Specie se si vuole agganciare alla valutazione i meccanismi di finanziamento.
Valutare significa discutere i criteri di valutazione. Quelli del CIVR (Comitato d’indirizzo per la valutazione della ricerca) derivano da un preciso contesto culturale e quantificatore, ma cadono come accette su discipline che rispondono ad altre coordinate. Un po’ come valutare il peso col metro e la velocità col termometro. In campo umanistico l’impatto sulla valutazione delle riviste “non scientifiche” è parossistico o da commedia dell’arte. Un ricercatore è spinto a rifiutare il proprio contributo ad apprezzabili iniziative editoriali perché nuove, non valutate o scarsamente valutate dal CIVR. Si innesca, così, un processo retrivo per cui conviene pubblicare solo sull’esistente e “riconosciuto”, smorzando la circolazione di saperi e nuove e molteplici esperienze di comunicazione funzionali alla critica più vera e democratica, quella cioè della revisione attraverso la libera lettura, la libera opinione e, perché no, la libera stroncatura. In diversi casi lo studioso più che misurarsi con delle griglie di valutazione deve confrontarsi con delle gabbie di valutazione. Le valutazioni annuali cancelleranno le ricerche annose?
Parlare di società ed economia della conoscenza significa affrontare politicamente il fatto che tali concetti implicano detentori gelosi di conoscenza (esperti, autori ecc.), una divulgazione controllata o frenata, temi nodali come i “diritti” e i brevetti (drammatico il caso dei farmaci).
Occorre favorire interazioni tra enti, mobilità, scambi di esperienze proficui e non asimmetrici tra le istituzioni, come ad esempio tra Cnr e Università.
C’è una cooperazione internazionale che parte dal basso, dalla fisiologia del lavoro e dalla concretezza degli addetti ai lavori: prima c’è la cooperazione poi il suo riconoscimento formale, e magari la sovvenzione. Non è opportuno sostenere e sburocratizzare l’azione degli studiosi, semplificare i protocolli lavorativi per non illustrare ai colleghi stranieri l’organizzazione della ricerca italiana (e la sua modulistica) come un esempio di teatro dell’assurdo?
* Ricercatore