Baricco “Basta Dad la scuola cambi per non morire”
Intervista allo scrittore
Riccardo Luna
«La scuola». Da qualche anno se chiedete ad Alessandro Baricco - 63 anni, scrittore - di cosa dovremmo occuparci prima di tutto per far ripartire l’Italia, dà sempre la stessa risposta: «La scuola». Nel giugno 2015, dedicò a questo tema il suo intervento alla Repubblica delle Idee di Genova: un monologo appassionato per convincerci che era arrivato il momento di ripensare il metodo di insegnamento.
Disse fra le altre cose: «È abbastanza ovvio che per ripensare il mondo dobbiamo iniziare dalla scuola. Cosa insegniamo e perché facciamo questo? Bisogna avere il coraggio di eliminare cose inutili o superate, come la divisione in materie e classi».
Sono passati sei anni esatti, gli ultimi due funestati dal Covid, nei quali la scuola ha scoperto la Dad, la didattica a distanza; e tutti abbiamo capito che qualcosa non va. In questa conversazione per TechTalk, il contenitore quotidiano di Italian Tech, Baricco prova a entrare nel cantiere della scuola del futuro per capire come costruire qualcosa di migliore.
Cosa abbiamo imparato da questi mesi di Dad?
«La Dad è stata la cosa peggiore che siamo riusciti a produrre. Il difetto principale è stato riversare su uno strumento limitato, il computer, quello che facevi in classe. Quando ho visto che mio figlio faceva educazione fisica in Dad come se niente fosse ho capito che c’era qualcosa che non andava. Colpa anche nostra, dei genitori. Quando vedevamo i nostri figli andare a scuola, restando in camera, per cinque o sei ore davanti a uno schermo, non ci siamo chiesti perché lo consentissimo quando per una vita abbiamo detto loro di non stare attaccati al computer».
Cosa avremmo dovuto fare?
«Era evidente che c’era da fare una roba tipo: ok, non più di tre ore in Dad, il resto del tempo facciamo altro, ci inventiamo qualcosa, altri modi di studiare ma non al computer. Ma che vita è tutto il giorno davanti a uno schermo? Infatti moltissimi hanno smesso. Smesso di andare a scuola. È stata la loro forma di ribellione. Smettere di studiare è una grandissima forma di ribellione, la più coraggiosa, la più letterale e diretta, io la trovo a suo modo geniale. Il fatto che queste legioni di ragazzi che studiavano male e hanno smesso, siano stati colpevolizzati dimostra che siamo educatori con tanti difetti.
Ovviamente non è che a un ragazzo che lascia la scuola devi dire bravo.
Ma devi leggerlo dentro. Ci vuole della personalità per staccarsi dalla scuola. Quell’energia lì, quella personalità, va recuperata e utilizzata. Senza santificarli perché il primo valore che dobbiamo trasmettere ai giovani è il senso del dovere: se il tuo lavoro è fare il pane fai il pane, anche sotto il temporale.
Ma se il forno non funziona c’è anche il panettiere che dice: sapete che c’è?, io mi fermo sennò non lo capirete mai che avete un problema. La protesta silenziosa dei tanti che quest’anno si sono staccati è una protesta che dobbiamo ascoltare».
La didattica a distanza ha amplificato i difetti di un certo modello di istruzione?
«Il Covid ha decretato in maniera definitiva il tratto chiaram ente obsoleto della scuola che abbiamo. La cosa che a me costerna di più è che le idee per insegnare meglio sono tutte in circolo. Per esempio se vai all’istituto Indire, un pezzo del mondo scuola che si occupa del futuro, trovi idee fantastiche. Quello di fatto è la cabina di comando, ma neppure loro riescono a cambiare la scuola. Perché la scuola non cambia se non cambia il formato. Il design».
Perché non si può cambiare?
«Credo che occorra guardare con ferocia a una cosa importante: l’assunto non toccate il sindacalismo mai, i diritti del lavoro e la tutela dei lavoratori mai. Mai, mai, mai. Però la scuola in Italia è bloccata anche per la difficoltà immensa che si ha con i sindacati della scuola. Quando un ministero non riesce a cambiare una cosa che teoricamente controlla bisognerà farsi delle domande. E se dovessi provare a dare una risposta sarebbe che non puoi cambiare una cosa così grande tutta insieme, e quindi la devi parcellizzare, devi fare tante riforme diverse, iniziare a riformare una piccola parte, procedere per contagio, non puoi pensare di dare uno scossone a tutti.
Infatti non ci sono mai riusciti. La seconda risposta è che c’è qualcosa che non funziona sicuramente nella maneggevolezza di questo corpo scolastico. Gli insegnanti hanno una grande responsabilità: l’Italia è piena di insegnanti bravissimi e di altri che non hanno una predilezione per l’innovazione eppure sono molto difesi, come è giusto che sia. Ma alla lunga questo crea una rigidità del sistema, stiamo difendendo una cosa, ma ci stiamo sparando in un piede. So che è molto impopolare dire queste cose e so che il posto di ministro dell’Istruzione è il meno ambito fra tutti, ma è evidente che non stiamo facendo il nostro dovere».
Torniamo agli studenti: come recuperiamo questa generazione?
«A livello psicologico e morale devono tornare in campo i genitori.
Dal punto di vista scolastico tocca agli insegnanti chiedersi come fare a rimettere in piedi le cose. Faccio l’esempio della mia scuola, la Scuola Holden, che è molto particolare, non è una scuola tradizionale, ma anche noi ci rendiamo conto che ci siamo sconnessi dai nostri ragazzi quando sono andati tutti a casa. Torneranno?
È un dibattito aperto. Una lezione dal vivo ha senso se è significativa altrimenti la preferiscono registrata e la sentono quando vogliono».
Tra le “idee fantastiche” di Indire qual è la più importante?
«Stanno studiando come disintegrare il totem classe. Uno dei grandi limiti della scuola attuale è che non è flessibile, ti costringe a una convivenza forzata con un numero molto piccolo di tuoi coetanei. Si può fare tutta le retorica che si vuole sugli amici del liceo, ma di fatto quella è una situazione sociale che nella vita non si verificherà mai più. In Italia ci sono già scuole organizzate in questo modo: c’è l’aula di matematica, l’aula di italiano, e gli studenti girano, incrociandosi con altri studenti che fanno la stessa lezione, che seguono lo stesso segmento didattico. Anche di età diverse. E poi servono segmenti didattici più corti, non l’esame dopo tre anni o la pagella ogni quattro mesi: dovremmo fare come nei videogiochi, percorsi in cui vedi la fine, salendo di livello in livello».
Quante speranze hai di vedere la scuola diventare così?
«Noi la scuola la cambieremo. Gli europei la cambieranno in un numero di anni non enorme, ne va delle loro sopravvivenza. Questo è un sistema destinato a collassare. La pandemia ha dato una grandissima spallata. I nostri figli andranno ancora in questa scuola. I loro figli no».