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Cambiare la manovra, salvare la scuola, tornare a crescere

di Fabrizio Dacrema

13/09/2011
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ScuolaOggi

La scuola pubblica è al punto zero: non c’è più il modello precedente i tagli Tremonti-Gelmini, non c’è ancora un nuovo assetto del sistema scolastico.
Da questo anno scolastico l’insostenibile riduzione delle risorse messa in atto dal 2008 (8 miliardi e 130.000 posti) è a regime ed è sotto gli occhi di tutti che così non può continuare.
La scuola pubblica italiana ha perso tutti i suoi aspetti di eccellenza, senza introdurre alcun miglioramento nei suoi punti deboli. Via il tempo pieno e la buona scuola elementare e dell'infanzia, gravemente indebolite le migliori esperienze di integrazione delle differenze (disabili e migranti), pesantemente ridotte anche le attività laboratoriali. Senza risorse per individualizzare i percorsi formativi si aggraverà la dispersione scolastica e peggioreranno i livelli di apprendimento, mentre l’edilizia scolastica rimane nelle stesse condizioni di inciviltà. Se a questo si aggiunge l'accanimento con cui il governo infierisce contro i lavoratori della scuola, colpevoli innanzitutto di essere elettori poco affezionati al centro destra, appare chiara una situazione senza vie di uscita.

Non poteva andare diversamente visto che di otto miliardi tagliati non si è reinvestito un solo euro.
Infine la manovra, con i suoi devastanti tagli a Regioni ed Enti Locali, non solo distruggerà il già fragile welfare formativo territoriale (nidi, mense e trasporti scolastici, diritto allo studio, formazione permanente), ma vanificherà anche la possibilità di ricostruire in chiave federalista i sistemi formativi pubblici.
In questo quadro il futuro assetto del sistema scolastico sarà inevitabilmente segnato dai processi di privatizzazione: non è difficile prevedere la prossima fuoriuscita dei ceti sociali salvaguardati dalla manovra da scuole e università pubbliche.
Questa non è infatti una delle tante manovre di aggiustamento dei conti, le sue dimensioni quantitative e la profondità della crisi che deve fronteggiare fanno sì che gli effetti delle scelte compiute peseranno sul nostro futuro per un tempo non breve. Se non cambia radicalmente, il suo carattere iniquo e recessivo muterà profondamente il volto della società italiana, esasperandone le disuguaglianze e accelerandone il declino economico.
In un paese dove il 10 per cento dei cittadini detiene il 50 per cento della ricchezza, far pesare il risanamento quasi esclusivamente sui ceti medio bassi, lasciando intatti i grandi patrimoni e sostanzialmente non intervenendo contro l’evasione fiscale, significa porre fine all’idea costituzionale di alcuni diritti fondamentali di cittadinanza – il diritto all’istruzione tra questi - garantiti a tutti i cittadini.
In un paese dove da lungo tempo la crescita è inferiore a quella non entusiasmante degli altri paesi europei e dove le previsioni sono inferiori al misero 1,1% preventivato dal Governo, il susseguirsi di misure restrittive è destinato ad aggravare la situazione recessiva con effetti negativi sui conti pubblici che, a loro volta, renderanno necessarie altre manovre di contenimento, mettendo così in atto un circolo vizioso che ci porta dritti al declino e alla progressiva marginalizzazione del paese.
Per questo tutte le forze responsabili concordano su un punto: se non si adottano provvedimenti per far ripartire l'economia, nemmeno il risanamento sarà possibile. Meno crescita significa più deficit. Oltre a maggiore disoccupazione e a mancanza di prospettive per i giovani (la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 30%).
Ed è proprio sul terreno della crescita che il Governo manifesta tutta la sua inadeguatezza, la sua incapacità politica di spostare consistenti risorse dall’evasione fiscale, dalle grandi ricchezze e dalle rendite agli investimenti e al    finanziamento di piani per formazione, ricerca, innovazione e sostegno all’occupazione giovanile
La manovra del governo, dopo aver disarmato scuola, università e ricerca, non prevede nulla di efficace per la crescita, si limita a riproporre la solita ricetta fallimentare: mano libera all’impresa, meno costo del lavoro, meno diritti per i lavoratori. Ma non saranno lo smantellamento del contratto nazionale, i licenziamenti senza giusta causa, la possibilità di concentrare i lavoratori disabili in reparti ghetto o la cancellazione del sistema di tracciabilità dei rifiuti per la lotta alle eco-mafie che ci faranno diventare più competitivi nell’economia globalizzata. 
Lo sciopero del 6 settembre, il suo grande successo e l’allargamento del consenso che ha determinato attorno alla proposta della Cgil, ha messo in campo un altro punto di vista e ha dimostrato che un’altra manovra è possibile.      
Nella contromanovra della Cgil equità e crescita marciano assieme. Far pagare chi ha di più (tassa patrimoniale ordinaria e straordinaria sui grandi immobili), chi non ha mai pagato (nuova imposta sui capitali scudati e misure strutturali di lotta all’evasione) insieme a misure per eliminare sprechi e spendere meglio (riduzione costi politica e consulenze ministeri, rimodulazione fondo grandi opere e rimodulazione incentivi alle imprese): sono queste le scelte che rendono possibile il reperimento delle risorse necessarie (72 miliardi) per raggiungere il pareggio del bilancio nel 2013 (46 miliardi), per evitare lo smantellamento del welfare e per finanziare misure per la crescita (26 miliardi).
La contromanovra della Cgil propone misure decisive per rimettere in moto il paese e indica il modo per finanziarle: un fondo per la crescita e l’innovazione, incentivi per la formazione e l’occupazione dei giovani, la cancellazione dei tagli agli Enti Locali e l’allentamento del Patto di stabilità interno per gli investimenti in innovazione sociale e per le infrastrutture materiali e immateriali.
La Cgil propone, infatti, una nuova politica industriale finalizzata a superare a ricomporre e riqualificare il tessuto produttivo del paese, oggi poco competitivo perché prevalgono settori tradizionali e frammentazione. Occorrono politiche mirate e selettive finalizzate a incentivare lo sviluppo della green economy, l'innovazione di processo e di prodotto, la partnership delle imprese con università e centri di ricerca, l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro con contratti che assicurino stabilità e formazione (vedi recente accordo sull'apprendistato).
Questa sono le scelte necessarie per una economia capace di competere sulla qualità e l’innovazione, l’unica via possibile per non retrocedere nella divisione internazionale del lavoro e per superare la zavorra del debito pubblico anche attraverso l’aumento del prodotto interno lordo (il denominatore del rapporto debito/PIL su cui si basano gli obiettivi di risanamento).
Se il baricentro della manovra si sposta sui temi delle crescita, allora diventano prioritari gli investimenti in formazione e ricerca, il diffuso innalzamento delle competenze dei giovani e degli adulti, il potenziamento dell'interazione tra sistema produttivo e sistemi della conoscenza.
Proprio dalla crisi in corso può allora venire la spinta a non rassegnarsi alla residualità dei sistemi pubblici della conoscenza e a ricostruirli secondo i principi della Costituzione. Non si tratta di tornare banalmente alla scuola come era prima dell’era Berlusconi, ma di innovare profondamente, tenere fermi i principi essenziali delle buone esperienze realizzate, pensare modelli che siano, non solo nuovi, ma anche diversi, nel quadro del nuovo ruolo che sarà inevitabilmente giocato dalle Regioni e dagli Enti Locali.
Protagonisti di questi processi di cambiamento dovranno sempre più essere i corpi intermedi: le parti sociali, la società civile, le componenti innovative del mondo della scuola. In questa direzione l’esperienza degli Stati Generali della Conoscenza rappresenta un punto di forza da valorizzare e sviluppare per la costruzione di indirizzi e proposte capaci di stimolare e guidare il cambiamento.
Le sorti della scuola pubblica si giocano dentro lo scontro sociale e politico per cambiare una manovra autoreferenziale, priva di un disegno per il futuro del paese, unicamente guidata dal tentativo del Governo di non colpire gli interessi del proprio blocco elettorale.
Lo hanno capito i tanti studenti e insegnanti che il 6 settembre hanno riempito le cento piazze della Cgil.