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Carta-L'alternanza scuola lavoro: una lunga e accidentata storia-di M.Brigida

L'alternanza scuola lavoro: una lunga e accidentata storia Di Maria Brigida Ci sono espressioni e parole che, nella scuola, appartenevano ad una elaborazione sicuramente progressista e che ora si ...

03/11/2005
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Carta

L'alternanza scuola lavoro: una lunga e accidentata storia
Di Maria Brigida

Ci sono espressioni e parole che, nella scuola, appartenevano ad una elaborazione sicuramente progressista e che ora si ha timore persino di usare, per via dell'uso che ne ha fatto questo Governo, che di loro si è appropriato, facendole diventare parole che evocano significati negativi, scenari di ordinaria discriminazione. L'alternanza scuola lavoro, alla quale la legge 53/'03 sul sistema di istruzione ha dedicato addirittura un apposito articolo, appartiene sicuramente al novero delle parole malate, di quelle che vanno rifiutate perché riconducibili ad un'idea di scuola riduttiva, socialmente ingiusta e sbagliata .
Ma davvero l'alternanza scuola lavoro, quella avviata dalle e nelle scuole secondarie superiori alla fine degli anni settanta, va rigettata, rinnegata perché l'eterogenesi dei fini ha prodotto l'esito morattiano che non possiamo in alcun modo condividere?
E' un terreno "minato", quello del rapporto scuola lavoro, da sempre un tema delicato, in cui pare insita un' ambiguità che ha portato molti a respingerlo in nome di un presunto, quasi automatico asservimento della scuola agli interessi dell'impresa. Quest'ultimo nella sostanza costituisce il peccato originale dell'alternanza scuola lavoro, peccato che fa velo a qualunque altra possibile considerazione, pedagogica e didattica che sia.
Proviamo allora a ripercorrere la tappe che portarono in quegli anni tanti insegnanti di sinistra a sperimentare un modello didattico che interrompesse l'egemonia gentiliana nella scuola superiore. Egemonia per la quale la cultura, quella vera, quella con la C maiuscola era e doveva rimanere disinteressata, un empireo senza alcuna finalizzazione e soprattutto senza "fare". E' un assunto che a ben guardare fa ancora parte di un patrimonio diffuso, in particolare fra i cosiddetti intellettuali, che non casualmente hanno dedicato fiumi di inchiostro a difendere il latino e il liceo classico, quando nel passato qualcuno osò metterne in discussione il dogma, e praticamente neanche un goccio di inchiostro per affermare una concezione oserei dire più gramsciana del sapere, che non può essere ridotto ad una dimensione esclusivamente astratta.
Non a caso le prime esperienze di alternanza scuola lavoro risalgono alla fine degli anni settanta, e nascevano proprio da una spinta del movimento operaio che cominciava a rivendicare la dignità pedagogica del lavoro, affermando un'idea di percorso formativo come processo in cui entrano tipologie diverse di attività rivolte alla crescita culturale e professionale delle persone, in cui centrale è il soggetto in formazione; idea in qualche modo contrapposta al tradizionale ruolo nozionistico-informativo della scuola, in cui centrale è invece il ruolo dell'istituzione formativa.
Si pensava allora che il sistema scolastico italiano fosse l'unica istituzione rimasta uguale a se stessa, impermeabile ai cambiamenti che si cominciavano a manifestare nei modi di vivere e di produrre, impermeabile a fenomeni quali la complessità, la flessibilità, la rapidità dei cambiamenti sul lavoro che, se subiti, avrebbero configurato una sorta di lavoratore usa e getta; se, invece, governati, avrebbero configurato un nuova figura di operatore professionale, titolare di una professione, in grado di gestire autonomamente tutti gli scambi di conoscenza necessari.
Non era ancora l'epoca della globalizzazione, ma alcuni suoi fenomeni tipici cominciavano a delinearsi, ponendo il sistema scolastico del nostro paese, in particolare la scuola superiore, di fronte alla necessità di rivedere i suoi paradigmi fondanti, senza per questo sottometterla agli interessi del mercato.
In qualche modo si provava a mettere in discussione quel modello di scuola avulso dalla realtà, per affermare al contrario una scuola dentro i fenomeni, volta a fornire adeguati strumenti di lettura, interpretazione e governo. Una scuola indifferente ai mutamenti sociali, culturali derivanti anche dai cambiamenti del lavoro era ed è una scuola che esclude, inadeguata rispetto alle sue finalità formative.
Con queste intenzionalità nacquero quelle prime esperienze, veicolate in alcune realtà dalla spinta di consigli di fabbrica che in qualche modo si facevano garanti del valore formativo delle esperienze nei posti di lavoro dei giovani studenti.
Sono nati allora i coordinamenti, i comitati scuola e lavoro, sono nati i primi responsabili scuola lavoro, i primi tutor, che via via cominciarono ad essere individuati anche dentro i luoghi di lavoro. Anche tutor, come noto, appartiene ora alla sfera delle parole malate, ma nella secondaria superiore l'introduzione di questa funzione era " di sinistra": erano i colleghi reazionari, per usare una terminologia desueta, quelli restii a qualunque messa in discussione del loro modo di insegnare, che la rifiutavano e che l'approvavano solo a condizione che non toccasse a loro.
La chiamammo alternanza scuola lavoro, perché prevedeva momenti di lavoro, ancorché simulato o comunque protetto, inseriti in percorsi di studio. Qualcuno usò quasi come sinonimo anche il termine integrazione. Erano comunque esperienze di lavoro guidato dalla scuola, inserite pienamente dentro il progetto educativo ( allora non c'era ancora l'autonomia e non c'era il POF). In realtà in altri paesi con l'alternanza si indicavano percorsi più strutturati, di vero e proprio lavoro, alternati a momenti di formazione. Ma da noi la storia iniziò in questo modo e, per dirla in estrema sintesi, con queste esperienze si mirava a rompere l' anacronistica dicotomia tra studio e lavoro, tra scuola e realtà esterna, per rendere la persona in formazione consapevole e capace di controllo della realtà in cui opera e con cui interagisce.
E' stato un processo che ha conosciuto modalità attuative diverse, a seconda dei territori e dei contesti in cui la scuola era inserita. Ma tutte le esperienze avevano in comune l'obiettivo di considerare l'alternanza una modalità didattica dentro il progetto pedagogico, da rivolgere a tutti gli studenti di tutti gli indirizzi della scuola superiore. Tant'è che in molte realtà le esperienze si realizzavano piuttosto indifferentemente nei licei e negli istituti tecnici e professionali.
Si cominciò a parlare di stage, in alcuni casi di tirocini ed arrivò la Legge 236/'93, ma soprattutto la legge 196/'97 sul mercato del lavoro.
Fu, quindi, la normativa mercato lavorista a farsi carico per prima di una regolamentazione di queste esperienze. L'intento era chiaro: delimitare e disciplinare l'uso di uno strumento che diversamente si poteva configurare come sfruttamento gratuito di manodopera. Paradossalmente, il bisogno di salvaguardare il carattere formativo delle esperienze di lavoro dei giovani impegnati nei percorsi scolastici e formativi finì, al contrario, dato il contesto mercato lavorista, per confermare i dubbi di coloro che, anche grazie ad una formazione gentiliana prevalente, guardavano con sospetto a questa contaminazione tra scuola e lavoro.
In campo scolastico fu, negli anni novanta, la riforma dell'istruzione professionale di stato ( il cosiddetto progetto 92) a recepire, inizialmente sotto forma di sperimentazione e poi a regime, le esperienze di stages in azienda come modalità ordinaria dei propri curricoli, in particolare per le classi terminali.
Ma anche questa scelta sembrava in qualche modo relegare il rapporto tra scuola e lavoro nel recinto dei percorsi formativi finalizzati al lavoro. Insomma la formazione culturale vera, quella dei licei, continuava a rimanere, sul versante legislativo, incontaminata da derive lavoriste, che ne potevano insidiare il carattere aulico e disinteressato. Poco importava se a questi percorsi "puri" si rivolgeva una parte sempre più minoritaria di studenti: la classe dirigente continuava ad essere prevalentemente formata in modo classico.
Con l'avvento del Governo Prodi il tema assunse una rilevanza decisamente nuova; ma il gergo aziendalista prevalse e i più furono confermati nel loro sospetto iniziale, di un sistema scolastico piegato agli interessi dell'impresa. Alle esperienze nate a fine anni settanta, con uno spirito del tutto diverso, si affiancarono esperienze più diffuse di alternanza, questa volta guidate dal Miur che, tanto per non fugare i dubbi ma quasi a confermarli, non ha trovato di meglio che sottoscrivere accordi con Confindustria e poi, in tempi recenti con la Moratti, anche con altre associazioni datoriali, finalizzati a finanziarie e a sostenere esperienze di cosiddetta alternanza.
Fino ad arrivare alla legge 53/03 che con l'alternanza sembra prefigurare un ulteriore canale formativo per giovani tra i 15 e i 18 anni di età, accanto agli altri due percorsi liceali e di istruzione e formazione professionale.
E' una sorta di Giano bifronte, il rapporto scuola lavoro, da non mitizzare ma neppure da demonizzare; è un nodo intricato da sciogliere, che però non può essere eluso, per paura dei rischi che pure sono sottotesi. Rischi che si possono superare se la scuola ha chiarezza del suo mandato ed esercita attentamente e fino in fondo il suo ruolo, governando tutte le fasi e le diverse modalità in cui si sviluppa il percorso formativo dei giovani. Se per un verso le finalità della scuola non possono essere in alcun modo assoggettate al mercato e all'impresa, per l'altro non può concepirsi una scuola che, novello don Chisciotte, pensa di lottare contro tutto ciò che è fuori di essa per affermare un predominio culturale tutto teorico, avulso da qualsiasi rapporto con il contesto reale, di cui il lavoro e le sue dinamiche costituiscono elemento rilevante.
Del resto porsi l'obiettivo reale di portare tutti i giovani al diploma di scuola superiore implica misurarsi anche con queste sfide.