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Carta-L'antieconomia della conoscenza-di Marco Revelli

L'antieconomia della conoscenza Capitalismo della conoscenza. O, con lessico più neutro, "economia della conoscenza". Quando era comparsa per la prima volta, nel pieno degli anni novanta, l'espres...

02/11/2005
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Carta

L'antieconomia della conoscenza

Capitalismo della conoscenza. O, con lessico più neutro, "economia della conoscenza". Quando era comparsa per la prima volta, nel pieno degli anni novanta, l'espressione sembrava essere gravida di promesse. Annunciava, suadente o quantomeno ne suggeriva l'idea il superamento della dimensionehard novecentesca, dell'età del ferro del capitalismo, con il suo gigantismo industriale, la pesantezza delle sue fabbriche, la durezza dei suoi apparati metallici, in particolare della catena di montaggio, con la sia ripetitività ottusa&e il passaggio ad un'economia soft, votata alla leggerezza (Ricordate il successo de "l'insostenibile leggerezza dell'essere" di Kundera?) fatta di immaterialità, creatività, libertà. Un'economia più "parlata" che "lavorata", dove la struttura mobile dei linguaggi comunicativi avrebbe sostituito la rigidità degli impianti, ed il "sapere" avrebbe soppiantato la forza motrice come anima del processo produttivo.
Allora all'"uomo bue" di Henry Ford si sarebbe contrapposto il "camice bianco"; alla tayloristica separazione fra ideazione ed esecuzione, la più civile cooperazione partecipata fra produttori consapevoli, ognuno portatore di un "saper fare" riconosciuto ed indispensabile, in un clima d'informalità laboriosa secondo il modello dell'"autoattivazione" proposto da Tajichi Ohno nel suo "Spirito Toyota". Avrebbe dovuto essere quella la cifra attribuita dai suoi apologeti al passaggio dal "fordismo" al cosiddetto "post-fordismo", o comunque al "nuovo" che pareva di intravedere dietro il crollo delle mura delle antiche fabbriche: una seducente tendenza all'emancipazione dei lavoratori dalla materialità pesante del lavoro. Una sorta di riappropriazione delle proprie facoltà mentali come "forze produttive" e una conseguente liberazione dalla fissità cogente de processo di lavoro e della sua struttura per mansioni rigide. Una sorta di ri-personalizzazione del lavoratore per molti aspetti parallela a quanto le nuove teorie del marketing andavano proponendo per il consumatore, tramontata l'epoca della produzione di massa standardizzata.
Come per altri idola fori della tarda modernità, come per il mito della new economy, odel "turbocapitalismo", o della net economy, anche per l'"economia della conoscenza" (che ne voleva essere un po' la sintesi) la corsa verso l'apice della parabola fu rapida e impetuosa, e altrettanto rapida e impetuosa la disillusione. Quantomeno da parte di chi ne avrebbe dovuto cogliere i maggiori vantaggi: i "lavoratori della conoscenza".

Le macerie del fordismo

I reparti delle fabbriche non si riempirono di camici bianchi. Si svuotarono, questo sì, di tute blu. E talvolta scomparvero, lasciando nel tessuto urbano le macchie rugginose dei "vuoti industriali,", le macerie delle "aree dimesse" a futura memoria del carattere effimero dei miti novecenteschi. O, là dove sopravvissero, facendosi radi di uomini messi tuttavia al lavoro spesso dietro le vecchie macchine, senza le antiche certezze (e sicurezze) ma anche senza le nuove speranze, mentre tutt'intorno, negli interstizi della città fattasi tutt'intera "spazio produttivo", si moltiplicava il tessuto eterogeneo delle nuove "figure del lavoro": individui, non più massa, "emancipati" dall'ancoraggio al "luogo produttivo", dalla coazione del "posto di lavoro", ma non per questo più liberi perché "messi al lavoro" dentro cicli complessi, secondo "specifiche" precise e decise in un altrove indecifrabile, all'interno di logiche organizzative improntate all'esternalità, alla dislocazione, alla reticolarità.
Lavoratori non più "legati" dal nastro metallico della assembly line ma dal potere impalpabile (ma non meno forte) della comunicazione, non più "atomi" dei convogliatori ma dai "bit" dei network, dai segni mobili sui displays; con un tempo non più scandito dalla sirena della fabbrica o dal cronometro dell'ufficio Mtm bensì dal proprio "orologio interno", da un'autodisciplina non meno opprimente di quella gerarchica di prima.
Comando, alienazione, reificazione, spersonalizzazione non scompaiono come promesso. Semplicemente si spostano di luogo e di livello. Si diffondono e si "alzano". Per certi versi si intensificano e si assolutizzano. Nel momento in cui la "conoscenza" si fa direttamente "forza produttiva" non richiede più, per essere tale, la mediazione del proprio farsi tecnologia, del proprio "materializzarsi" in un sistema di macchine costitutivo del "capitale fisso" ma si identifica senza residui nella vita messa al lavoro essa opera in senso proprio come "capitale". Come potenza votata totalitariamente alla propria "valorizzazione". Forse avremmo dovuto comprenderlo già dalla struttura lessicale dell'espressione "Economia della conoscenza" implica una dominanza semantica del primo termine sul secondo. Una conoscenza che si "economicizza", che si fa economia, che connota un modello di economia è destinata a incorporarne lo statuto e la natura "orrifica" (l'horror èconomique di cui parla la Forrester). O, per dirla marxianamente, a sacrificare il proprio "valore d'uso" sull'altare del "valore di scambio".
La conoscenza, nel momento in cui diventa un tipo di economia, si sottomette al principio di utilità (al principio che distingue appunto l'economia da ogni altra sfera). Cessa di essere forma della vita e diventa forma della produzione e dello scambio. Se poi non connota solo un tipo di economia ma addirittura di "capitalismo" come è implicito nell'espressione "capitalismo della conoscenza", allora la metamorfosi è ancora più esplicita: nel processo di identificazione non solo l'atto del conoscere diventa processo di lavoro, ma come lavoro viene appropriato, "privatizzato". Diventa tuot court "capitale".
Da entità sociale socialmente riprodotta, si costituisce in potenza separata e inconsapevole delle dinamiche del proprio farsi: capitale "personale", frammento di capitale incorporato nel corpo (e nella mente) del lavoratore da introdurre nel circuito delle merci secondo le regole dello scambio mercantile, merce tra le merci; e poi capitale "fisso", apparato produttivo, sistema di "mezzi" separati dai loro utilizzatori ed a questi contrapposti come potenza "esterna" secondo la logica del "feticismo delle merci" per cui appunto le potenze sociali del lavoro si ergono di fronte ai loro produttori come "altro da loro" come potenze del capitale de-socializzate e trasformate in strumento di comando.
Ma, al di là del significato delle parole e della loro decodificazione, ci saremmo comunque da subito dovuti accorgere delle trappole nascoste tra le pieghe dell'"economia della conoscenza" e delle retoriche fin da subito delle trappole nascoste tra le pieghe dell'"economia della conoscenza" e delle retoriche "cognitivistiche" che ne accompagnarono la marcia trionfale dal modo stesso in cui essa è nata. Dalla sua "genesi", chiamiamola così, nella quale sono impliciti già tutti i tratti che ne avrebbero caratterizzato la maturità e lo sviluppo.
Si può discutere a lungo sui processi che hanno preparato il tracollo del "fordismo", che hanno chiuso l'età del ferro del capitalismo novecentesco e aperto quella che è stata chiamata l'"età del silicio". Si può mettere l'accento sul ciclo di lotte internazionale degli anni sessanta e dei primi anni settanta, che ne hanno eroso le stesse basi antropologiche. Si può sottolineare, d'altra parte, la trasformazione strutturale dei mercati nelle aree in cui con maggior penetrazione si era affermata la produzione standardizzata di massa, e la crescente rigidità e saturazione di essi, tra gli anni settanta e gli anno ottanta.
Così come si può, a buona ragione, assumere come spartiacque il cambio drastico nelle linee strategiche della politica economica statunitense alla fine degli anni settanta, quando Paul Volker dichiarò morta la filosofia keinesiana incentrata sulla piena occupazione, e aprì l'epoca travagliata delle politiche anti-inflazionistiche e del neoliberismo selvaggio. Ma nessuno mi toglie dalla testa il carattere esemplare, paradigmatico, assunto da un evento apparentemente secondario. Un "fatto" minimo, a prima vista liquidabile come appartenente all'agiografia minima delle comunità adolescenziali di nicchia, da "Ragazzi della via Pal", per intenderci, accaduto una quarantina di anni fa sulla West Coast americana, nella terra di nessuno che sta tra Berkekey e Stantoford, tra capannoni industriali di periferia, sgangherato "stores" di componentistica elettronica, vecchi box auto trasformati in officine informatiche, dove si incontravano giovani hackers ante litteram, capelloni formatisi alla scuola del Free speach movement e impallinati delle nuove tecnologie di comunicazione per barattare pezzi di hardware ed esperimenti di software.
Lì, nell'inverno del 1975, un ragazzotto venuto dalla Costa orientale, compì un irrimediabile strappo a una consuetudine ritenuta sacra da quella comunità improvvisata,ma già coesa, che imponeva la socializzazione gratuita delle conoscenze innovative, l'uso sociale dei prodotti intellettuali di ognuno dentro una rete spontanea di artigiani informatici indipendenti aperta a tutti e proprio per questo capace di auto-migliorare ogni prodotto. Brevettò un prodotto. Impose il proprio copy-right a un Basic per l'Altair (il primo, artigianalissimo ed embrionale personal computer: allora poco più di una scatola di metallo con qualche led attivato da un microprocessore) scritto da lui e destinato come molti altri del genere a funzionare come un primitivissimo "sistema operativo". Gli diede anche un prezzo: 500 dollari se acquistato sa solo (molto più del valore della stessa macchina), 150 dollari se abbinato a un Altari. Il tipo non era molto diverso dagli altri suoi coetanei, se non per due particolari: veniva da Harvard anziché da Berkeley. E aveva una certa inclinazione per la venalità. Si chiamava Bill Gates e il suo atto suonò come una bestemmia: segnava l'appropriazione privata di una cosa che da tutti gli altri era considerata res nullius, proprietà di nessuno, o meglio una res omnium, proprietà naturale di tutti, come l'acua del mare o l'aria, o le parole che nascono e muoiono senza copy nei circuiti delle comunità umane. Quei prodotti che non misurano il proprio valore sulla scala dell'utilità economica ma su quella della qualità intellettuale, della capacità "gratuita" di creare e innovare. Fu allora che scoppiò quello che ancora oggi si ricorda come "il casino del software".

Le impronte di Bill Gates

In molti cominciarono a copiare quel nastro perforato e a spacciarlo gratuitamente nei neonati computer club della costa, con l'unico impegno per l'acquirente di riprodurlo a sua volta e di offrirlo gratis ad altri. Tanto che il giovane GAtes si allarmò, e indirizzò una isterica "Lettera aperta sulla pirateria" all'intera comunità hacker, in cui la accusava di "furto", e quel che è peggio, di attentato alla vocazione innovativa dal momento che "senza un'adeguata remunerazione nessuno avrebbe mai prodotto software in modo professionale". MA quelli gli risposero che il BAsic che lui aveva impiegato per il proprio embrionale "sistema operativo" il linguaggio di base con cui l'aveva scritto era nato in forma gratuita, nell'ambito di istituzioni finanziate con fondi pubblici, da parte di informatici che non percepivano alcuna royalty (le università non si erano integralmente aziendalizzate come oggi), e veniva quotidianamente migliorato da centinaia di sviluppatori anonimi, in forma non "professionale", ma "sociale", informalmente cooperativa.
Gates ripeterà poi questa stessa operazione su scala infinitamente maggiore qualche anno più tardi, nell'autunno del 1980 quando vendette alla Ibm la licenza all'uso del "proprio" Dos (in realtà un software fino ad allora libero, sviluppato da altri) e si avviò a diventare l'uomo più ricco del mondo.
Il che ci spiega il carattere inedito di quel nuovo modello che prende il nome di "economia della conoscenza". Il suo basarsi strategicamente sullo sfruttamento estensivo e intensivo di risorse sociali. Il fondare la propria apparente onnipotenza sull'impiego privato di risorse pubbliche su una scala senza precedenti. Quello che infatti alimenta in forma primaria il meccanismo delle valorizzazione in questo nuovo tipo di "capitalismo" è la messa al lavoro di risorse fino ad allora considerate "res nullius". Anzi meglio: res omnium. Questa capacità di appropriazione di un sapere diffuso, gratuito, intrinsecamente implicato nella vita di relazione di intere comunità, fino a trattarlo appunto come proprio "mezzo di produzione". A trasformarlo in apparato produttivo inscindibile dal proprio marchio e dalla propria "impresa". Appropriazione di linguaggi naturali, di reti di relazioni, di emotività, di innovazioni semantiche, di immagini e di forme del discorso, di "modi di sentire" e di comunicare, di tutto ciò che appartiene alla vita di relazione e sua "messa al lavoro". Sua decodificazione in chiave produttiva, secondo la logica di un nuovo ciclo di "enclosures", di "recinzioni delle terre" simmetrico a quello che accompagnò la nascita del primo capitalismo e la sua "accumulazione originaria".
L'economia della conoscenza non è solo incorporazione nei processi produttivi di specifiche conoscenze, di un di più di sapere scientifico. Questo in realtà appartiene ex origine al capitalismo industraiel, fin dai tempi del primo telaio meccanico. Il vero elemento di novità è la sottomissione dell'intero universo della conoscenza alla logica privatistica della produzione di valore di scambio. E' la colonizzazione di tutti i mondi relazionali e di tutti i linguaggi comunicativi, e la loro sterilizzazione in quanto "mezzi di produzione". Per questo è così importante reintrodurre, a questo livello di sviluppo e di totalizzazione dell'economia mercantile, il concetto di "bene comune". E la priorità di una sua tutela. Non si tratta tanto di rivendicare una maggiore attenzione ai processi di sviluppo della conoscenza, come sembrano fare tutte le componenti "progressiste" e in buona misura anche il movimento sindacale, comprese se lue componenti più sensibili. Si tratta di proteggere i processi costitutivi della conoscenza dalla sottomissione al capitale che ne minaccia l'essenza stessa. Che ne mette in discussione il carattere, appunto di "conoscenza", e il suo specificio "valore d'uso".