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Carta: Non riesco a dormire

Un racconto di scuola e precarietà, classi di concorso, code, incubi e pugni sulla porta. Per mantenere la dignità e non darla vinta a chi dice che il professore lo fa chi non riesce a fare nient'altro nella vita.

09/09/2009
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Carta

Salvo Mangione

Non riesco a dormire. Da alcune notti ripeto lo stesso sogno. Mi trovo in fondo ad una sala col parquet color mogano. Saranno venti metri, più o meno, tappezzati di specchi che brillano a dovere. Di fronte riconosco il materiale per l’attività fisica: tappetini gialli, pesi da un chilo, qualche bastoncino in plastica, non di legno. Sono sistemati in un angolo, forse l’unico che non è coperto dagli specchi, e divisi per categoria in maniera ordinata, come mai mi è capitato di vedere in una palestra. Il fatto è che non sono in una palestra. Questa è la sala danza dell’Istituto coreutico «Michael Jackson» di Oristano, uno degli ultimi nati, dopo la riforma delle Superiori, voluta dal Ministero dell’Istruzione. Mi hanno detto che fino all’ultimo volevano intitolarlo a Marco Carta, però il candidato era vivente e così si è sprecata una buona occasione «per portare avanti i nomi e i valori della nostra gente», come ha opportunamente riferito in Collegio dei docenti il collega d’Italiano-sardo. La sua classe di concorso è l’A051 bis, che sostituisce la precedente, perché la vita va avanti e «attraverso l’istruzione dei nostri allievi e la conoscenza dei dialetti vogliamo formare personalità preparate a comunicare in un ogni luogo della nostra terra». Nel’occasione il collega più anziano ha chiesto la parola. È noto come un piantagrane frustrato. Prima era collaboratore del Dirigente, ma non è mai riuscito a mettersi al passo coi tempi, infatti zoppica nell’espressione e tira fuori discorsi sconclusionati, emotivi, dalla prosa faticosa, pallosi insomma. Dice che l’Istituto semmai si sarebbe dovuto chiamare Maria Carta, e aggiunge polemicamente «perché c’è carta di qualità e carta straccia». Il Dirigente fa per prendere il microfono, ma l’anticipa un suo collaboratore della prima fila e richiama l’anziano collega alle principali regole della democrazia. Mi sembra giusto. Però appena esco avvicino il collega decano per chiedergli di questa Carta e mi faccio raccontare un po’ di storia della canzone popolare. Mi servirà durante le ore come questa, in sala, dove il mio compito di tutor di classe mi concede del tempo per pensare. Almeno fino a quando la prof., una giovane ventiseienne neodiplomata all’Accademia di danza, mi flauta la richiesta che attendo. Sì, certo, posso andare a prendere le cavigliere per i ragazzi. E le fasce per i capelli, sono nell’armadio tre. Serve anche il Cd di Kylie Minogue, quello famoso, lo riconosco dalla copertina comunque. Confesso che all’inizio è stata dura. Dopo aver accettato il contratto di disponibilità propostomi dal Ministero mi sentivo un miracolato, scampato alla mattanza estiva che aveva lasciato a casa colleghi con famiglia, figli, mutui più grandi dei figli, il tutto per accettare incarichi nei quattro angoli dello Stivale. Mi ripetevano: sai dov’è Barga? E Cividale? E li ho visti scappare come topi dalla nave in fiamme [al largo dei bastioni dell’Istituto privato don Orione] e tuffarsi in acqua, senza sapere in quali acque nuotavano. E se sapevano ancora nuotare. È successo nell’estate del 2009, un anno scolastico fa, dopo che la marea nera d’insegnanti precari si era ritirata e i sindacati della scuola plaudivano alla concertazione. Portavano in dono oro, incenso e mirra e seguivano la buona stella sicuri del fatto proprio. Meglio poco per tutti che niente, ci ripetevano, perché ormai la legge 133, quella dei tagli, era stata avviata e «loro hanno i numeri, fanno quello che vogliono in Parlamento». Così ci hanno riferito, a braghe calate, consigliandoci che era meglio fare fagotto e prendere quattro cose da portare in uno dei posti disponibili nelle famose code istituite con il Dm42/09, una sorta di Superenalotto per docenti. Indovina quella giusta? Ci siamo divertiti un casino con i colleghi. Pordenone? Mmm, non mi convince. Meglio Torino. E Genova, Grosseto, la Lombardia. Ma quello è il giardino di casa del nemico, che dici? Sì, sì, anche quello, tutto, pure Oristano. Ed eccoci qui, dopo un anno ho imparato a difendermi, marco le esse e le ti quando parlo e sono uno dei loro nel tragitto istituzione scolastica-casa, tanto che il portiere quando mi sente parlare del tempo e del Cagliari annuisce con soddisfazione, perché si vede che mi sono fatto il mazzo per integrarmi. Sono un cretino integrale, però, glielo ripeto a Onofrio, il mio collega di coda. Viene da Matera e avrà visto sì e no due volte il mare la scorsa estate, che l’ha tormentato la gastrite ulcerosa e i nervi, pure quelli, gli si sono cablati in testa, così non fa che chiedermi novità e Moment, novità ed Aulin, e poi non ho il coraggio di dirgli che ho finito i medicinali. Allora me lo prendo sottobraccio e gli sussurro «convocazione straordinaria». Lui sa di che si tratta e dieci minuti dopo ci troviamo nel cesso a concertare la linea comune contro il Ministero, nell’unico spazio della scuola che possiamo occupare. Da mesi cerco di spiegargli la questione dei precari. Dicono che siamo figli del centro-sinistra. E non è vero. Noi un padre ce l’abbiamo sempre avuto, lo Stato; mamma, invece è morta quando siamo nati. Così nel tempo [gli ultimi dieci anni] il nostro genitore ha avuto numerose relazioni, spesso occasionali. «E certo compare, in giro ci sono tante di quelle zoccole», prova ad interrompermi Onofrio. Ma io non mi disunisco e faccio come ai tempi del sostegno, lezione semplificata, come farei con il Ministro, se avessi la possibilità di spiegarle che i precari delle Sis [le Scuole di specializzazione per l’abilitazione all’insegnamento] ormai sono grandi, avranno undici anni più o meno, e non si possono dire le bugie a bambini che hanno memoria fresca. E si ricordano che dal 2001 al 2006 per un’intera legislatura ha governato il centro-destra e il diplomificio trainava l’economia scolastica e le Università telematiche riscuotevano la tassa annuale del precario e girava voce che un influente Ministro della Repubblica fosse coinvolto nella loro gestione. Indovina la coda..di paglia? Poi però il medico Fioroni ha fatto peggio, impedendo la mobilità, perché la verità Onofrio è che nessuno dei due, centro destra e sinistra, e neppure quello stronzo di papà vogliono che entriamo in ruolo, a tempo indeterminato, perché poi ci devono pagare gli alimenti per trent’anni. A questo punto sento che Onofrio lo sto perdendo, quindi mi limito a spiegargli la cosa in termini concreti. C’hai presente i forni crematori, quelli degli ebrei? Ecco, ci mandano ai contratti di disponibilità come alle docce, ma l’anno prossimo ci saranno altri tagli e noi rimarremo qui, equidistanti tra due marciapiedi, in mezzo a una strada. Per cui insisto, dico resisti, a Onofrio e a me stesso, e ascolto la collega che dalla sala ripete cinque, sei sette e otto. E caccio fuori cinque, sei, otto, mille pugni contro la porta del cesso, fino a quando sento soltanto il dolore nelle mani, il rumore dei miei pugni e Onofrio che mi dice basta. Basta dormire, ho riposato abbastanza, anche se non mi sembra di avere chiuso mai gli occhi, forse sono altri che lo fanno e di notte non sognano me, né Onofrio, né la marea nera di precari che allaga il Paese, ma paradisi tropicali, abilitazioni professionali ottenute con facilità, cattedre honoris causa e l’applauso della gente, il loro abbraccio di giustizia contro questi privilegiati di docenti da tre mesi di ferie pagate l’anno. Allora mi alzo e mi ripasso in mano l’ultimo cedolino del Ministero, sono un sentimentale porca miseria, e mi emoziono un poco a leggere giugno 2009, l’altroieri praticamente, sono ancora uno dei nostri, ci mancherebbe. Quindi è il caso che mantenga una mia dignità, per non darla vinta a quell’onorevole siciliano delle mie parti, sì quello con cui hanno parlato di recente i miei colleghi che credono nella politica, e che si è permesso di dire loro che il professore lo fa chi non riesce in nient’altro nella vita, tipo ingegnere, avvocato, architetto, oppure aggiungo io, politico, onorevole, portaborse, portavoti, leccaculo di qualsiasi deretano parlamentare, pure abusivo. Per me e non per questo figuro mi vesto la mattina presto, come se andassi a scuola, mi siedo davanti al tavolo di casa mia con un foglio di carta su cui ho scritto l’elenco di scuole da cui attendo una chiamata. E faccio l’appello. Pronto, sono il prof. Mangione, avete chiamato qualcuno nella mia classe di concorso?