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Chiara Saraceno: «Recovery, dagli asili al reddito sul Welfare servono più investimenti»

Intervista alla sociologa Chiara Saraceno. Dagli asili nidi al reddito, dalla non autosufficienza all’assegno unico per i figli: lo stato sociale non è un costo, ma un investimento sull'uguaglianza e il futuro. Ecco perché sul Welfare servono più investimenti e misure meno selettive e condizionate. E sul reddito di cittadinanza: «Va cambiata la norma sui 10 anni di residenza degli stranieri. Sarà delicatissimo per questo governo»

28/04/2021
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il manifesto

Roberto Ciccarelli

Professoressa Chiara Saraceno nel «Piano di ripresa e resilienza» sono previsti 230 mila posti per i bambini negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia a fronte di un fabbisogno di 1.250.000 posti. Perché non si trovano mai i fondi per finanziare il Welfare in Italia?
Non si trovano i soldi perché si pensa che il sociale sia un costo e non un investimento. Si agisce di rimessa e, se avanza qualcosa, si finanzia il Welfare. Al resto pensano le famiglie. La vicenda di questi fondi è misteriosa: la ministra per la famiglia Elena Bonetti sostiene che nel piano ci sono 4 miliardi 600 milioni, ma sarebbero destinati anche alle scuole per l’infanzia e altri servizi. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha detto che per i nidi ci sono 230 mila posti. Sia chiaro: è un bene che siano stanziati questi fondi. Il problema è che non sono sufficienti per raggiungere l’obiettivo che ci si era dati nel 2010. Per arrivare al 33% di nidi finanziati dal pubblico, quindi gratuiti, ci vorrebbero 300 mila posti in più per un ammontare di 4 miliardi e mezzo per le spese di impianto. Poi bisognerebbe dotare i comuni di altri fondi per la gestione, altrimenti si costruirebbero cattedrali nel deserto inutilizzate. Anche se non l’ho molto apprezzato, il piano Colao parlava del 60%. Oggi siamo indietro anche rispetto al 33%.

Come si risolve questo problema?
Come Alleanza per l’Infanzia abbiamo chiesto di raggiungere una copertura del 33% non come media nazionale, ma almeno a livello regionale. Altrimenti la Valle d’Aosta arriverebbe al 70%, mentre la Sicilia avrebbe un 10% della copertura dei nidi. Senza contare che le diseguaglianze sono infraterritoriali in regioni come Piemonte e Lombardia. Se il governo non fissa obiettivi stringenti a questo livello continuerà a piovere sul bagnato. Tra l’altro, secondo le nostre stime, si creerebbero oltre 42 mila posti di lavoro solo tra gli educatori. I servizi educativi sono altrettanto importanti della scuola. Se non si investe i bambini arriveranno già disegualizzati a scuola. Tutta la letteratura è d’accordo che gli investimenti nei primi anni di vita sulle opportunità educative sono fondamentali per attuare l’articolo tre della Costituzione dove si parla di togliere gli ostacoli allo sviluppo della personalità che riguarda innanzitutto i bambini. È alla loro età che si formano questi ostacoli.

Nel «Recovery» si parla di una «strategia globale» per sostenere l’accesso delle donne al mercato de lavoro anche attraverso i fondi ai servizi per l’infanzia. È credibile?
Come sui giovani anche sulle donne ascolto tantissime parole ma poche cifre. Di quanto si vuole aumentare la loro occupazione e entro quando? Se si pensa di raggiungere la quota di occupazione del 2019, prima della crisi innescata dal Covid, vuole dire che tra qualche anno saremo comunque al di sotto della quota del 2007. Una prospettiva che non mi rassicura moltissimo.

Nel piano è annunciata una riforma per la non autosufficienza: si vuole prendere in carico entro il 2026 il 10% delle persone sopra i 65 anni. SI parla di 800 milioni per il triennio 2021-2023. Che ne pensa?
Mi sembra un progetto ispirato a una visione sanitarizzata della non autosufficienza. Avremmo bisogno di servizi di prossimità, di assistenza e cure che sono molto carenti nel nostro paese. È molto importante non rendere i fragili e gli anziani dipendenti solo dalla solidarietà familiare.

Draghi ha detto che l’assegno unico per i figli diventerà lo strumento centrale e onnicomprensivo per il sostegno alle famiglie. Ma potrebbe slittare al 2022. Cosa pensa di questa misura?
Sono favorevole al fatto che in Italia ci sia finalmente uno strumento universale e non categoriale per le famiglie. Viviamo in un sistema frammentato disegualizzante dove può accadere che un lavoratore dipendente prende almeno l’assegno al nucleo familiare, in parte finanziato dai contributi dei datori di lavoro e in parte dallo stato, mentre nulla va a chi è povero, una partita Iva a basso reddito, un disoccupato di lungo periodo o un incapiente. È la prima volta che vengono stanziati tanti soldi. Tuttavia nella legge, così come è stata approvata, restano aperte questioni interpretative molto ampie che possono cambiare radicalmente il senso della misura.

Ad esempio?
Si dice che l’assegno è universale, che va a tutti i figli dal settimo mese di gravidanza ai 21 anni, se in formazione o in tirocinio. Non si capisce però perché proprio 21 anni. Non è un’età dove si finisce un ciclo di studio. Forse una laurea triennale, se si è veloci. E comunque tra i 18 e i 21 anni si prende meno rispetto a chi ha da 0 a 18 anni. Si dice che l’assegno va aumentato dal terzo figlio. Ma non si capisce perché non lo si dovrebbe aumentare dal secondo, visto che oggi sempre meno si decide di farlo. L’assegno aumenta se la mamma ha 21 anni. E non si capisce perché proprio questa età. Si è inoltre deciso che l’assegno deve essere legato al reddito familiare. Questo porta a fare calcoli complessi.

Quali?
Secondo i calcoli fatti da Arel, Fondazione Gorrieri e Alleanza per l’infanzia si potrebbe optare per una selettiva moderata al fine di valorizzare l’aspetto universale evitando di erogare benefici puramente simbolici. Ci sono altri che pensano a una misura più selettiva, rendendola progressivamente insignificante per i redditi più alti. Chi ha fatto la legge non ha risolto questo problema e la misura non è pronta. Ed è difficile che lo sia dal primo luglio.

Arriveranno davvero 250 euro a figlio?
A me sembra che questa cifra, riproposta anche da Draghi, sia una sparata. È quanto danno in Germania, ma da noi ad oggi i fondi non ci sono. Probabilmente è solo una media. Si calcola 161 euro a minorenne. Se si crea una misura più selettiva si può arrivare a 180. Si potrebbe proporre una clausola di salvaguardia affinché ci sia una transizione per tre o quattro anni. Ma la clausola costa.

Perché quando si parla di Welfare si cerca di selezionare o escludere le persone?
Ahimè, me lo chiedo anch’io. Non avviene solo in Italia, ed è un problema che riguarda la sinistra.

Il problema è quello che è stato chiamato «universalismo selettivo»?
Sì. Non sempre le misure universali funzionano universalmente. Bisogna essere legati in maniera meno ossessiva al fatto che il Welfare dipenda dalla prova dei mezzi. Questo alimenta il sospetto su chi imbroglia e froda la società. Mi rendo conto che questa prospettiva è perdente, a cominciare dalla sinistra. È positivo il desiderio di redistribuire, ma lo si dovrebbe fare a partire da un sistema fiscale in cui chi ha meno pagherebbe meno tasse e viceversa. Fino ad ora è stata scelta un’altra strada: pensi al Cashback: perché dev’essere Meloni a dire che è ingiusto? O al Super-bonus per l’edilizia: è una cosa da ricchi. Chi può permettersi oggi una ristrutturazione?

Lei presiede il comitato per la valutazione del reddito di cittadinanza. In che modo andrà riformato?
Il problema è la sua macchinosità. La valutazione dell’Isee, poi quella sul patrimonio e i risparmi. L’incrocio di queste norme è punitivo per le famiglie numerose con figli minorenni, le più colpite dalla povertà. Hanno creato il «Reddito di emergenza» ma non basta. Lo hanno dovuto prorogare perché le rigidità di accesso al reddito di cittadinanza non permetteva a chi diventa povero di accedervi. L’Isee pone un problema perché è basato sui dati di due anni prima e coglie la povertà cronicizzata, ma non quella di chi è stato colpito oggi dalla crisi e ha perso il lavoro. Accertarlo sul reddito corrente, e non sul patrimonio, è più difficile, ma si può fare. Del reddito di cittadinanza a me non piace il fatto che i beneficiari devono spendere tutto in un mese altrimenti sono penalizzati. Ma in questo modo Li si scoraggia a gestire il proprio bilancio, si impedisce anche di affrontare spese improvvise. Così si vive alla giornata, senza una visione d’insieme della vita. Un altro dei problemi è il collegamento tra le varie banche dati che oggi non si parlano. Quelle dell’Inali e inps, per dire, non lo fanno. Se lo facessero anche molti errori o imbrogli verrebbero ridotti perché ci sarebbe un controllo a priori. E non parliamo del fatto che ogni centro per l’impiego ha il proprio software che non comunica con gli altri Se dovessimo valutare cosa fanno i centri per l’impiego dovremmo cercare un campione e intervistare uno per uno. Mancano anche i dati di base. Mi ricordo quando abbiamo sperimento il reddito minimo inserimento con l’idea di dare i software a 36 comuni, ma sono stati diversi ad avere creato il proprio. Andrebbe anche cambiata la norma sui dieci anni di residenza per dare il reddito agli stranieri extracomunitari. Come Comitato vorremmo che bastasse il permesso di soggiorno. Sarà una questione delicatissima da affrontare per questo governo.

Il piano per la ripresa parla anche delle politiche attive del lavoro che oggi in Italia sarebbero collegate al reddito di cittadinanza. È opportuno legare le due misure o sarebbe preferibile una misura di reddito incondizionato indipendentemente dal lavoro?
Le politiche attive del lavoro non devono essere dedicate solo ai percettori del reddito di cittadinanza. Dovrebbero esserci politiche serie di questo tipo. Se ci fossero, è ovvio che una quota dei percettori del reddito di cittadinanza dovrebbero essere messi in rapporto con queste politiche. Bisogna aiutare queste persone. Però non tutti i beneficiari sono occupabili, sicuramente non nell’immediato perché non hanno le caratteristiche che li rendono occupabili. Bisogna garantire a queste persone una vita dignitosa, evitando di dire a un ultra-cinquantenne a bassa qualifica che deve trovarsi un lavoro. Se lo vuole fare benissimo, ma non lo si può obbligare. Il vincolo al lavoro non va vissuto solo in maniera negativa, ma anche positiva: si dà una chance, ma questa deve essere costruita.