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Corriere: Cervelli, la seconda fuga Su 466 si fermano in 45

Il (magro) bilancio dell'operazione rientro degli scienziati Il modello spagnolo: 800 tornano, 400 diventano docenti

17/11/2007
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Corriere della sera

A cchiappa cervelli suonava un po' sinistro. E allora l'avevano ribattezzato
brain buster, perché l'inglese dà sempre una certa aria di efficienza. Anno 2001, ministro dell'Università è Letizia Moratti, l'obiettivo quello di far tornare in Italia ricercatori che sono andati a lavorare all'estero. All'inizio il piano funziona: arrivano da noi 466 persone, attirate dalla sensazione che nelle università italiane il vento stia cambiando. Si parla di riforme capaci di spazzare via nepotismo e raccomandazioni. Si pensa ad un grande concorso nazionale e lì l'esperienza di chi ha lavorato in Inghilterra o negli Stati Uniti varrà di più, che diamine, di anni consumati a raccogliere le briciole del barone di turno che nei concorsi locali ha potere di vita e di morte. Passati sei anni, e spesi 52 milioni di euro, il bilancio è un fallimento: di quei 466 italiani di ritorno, secondo i dati ufficiali del ministero dell'Università, solo 45 sono stati stabilizzati, cioè trasformati in professori associati. Uno su dieci, e nelle intenzioni dovevano essere tutti. Un centinaio (ma questa è solo una stima) hanno rifatto le valigie e sono tornati all'estero, salutando per sempre il patrio suolo. Gli altri 321 sono in un doloroso limbo fatto di contratti a termine. E visti non proprio di buon occhio da quei colleghi che da casa non si sono mai mossi e adesso, dopo anni di semischiavitù, pretendono e ottengono la precedenza.
Il fallimento
L'atteso concorso nazionale non è mai arrivato, anche per le resistenze delle singole università che si sarebbero sentite scippate di una consistente fetta di potere. Non solo. Il primo gennaio 2003 arriva il blocco delle assunzioni per la pubblica amministrazione. Crisi post 11 settembre, tempi di magra: bisogna tirare la cinghia. I 466 emigranti di ritorno cominciano a pensare che quell'aria nuova in cui speravano puzza un po' di fregatura. Ma nel 2005 arriva una legge che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe risolvere tutto. Consente alle università di procedere alle cosiddette chiamate dirette: assumere professori associati e ordinari pescando direttamente tra chi ha avuto esperienze all'estero per almeno tre anni. Non solo: il ministero dell'Università si impegna anche a pagare il 95% dello stipendio di partenza dei nuovi assunti. Sugli atenei pesano solo i futuri scatti di anzianità. Un affarone, i 466 emigranti di ritorno tirano un sospiro di sollievo. Ma anche questa volta non succede nulla: chiamare gli stranieri non è un obbligo ma una possibilità. E davanti alle porte di presidi e rettori ci sono sempre quelle fastidiose file di assistenti che da anni sgobbano come semivolontari e faticano a mettere insieme il pranzo con la cena.
La norma, poi, non è