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Corriere: È l'Umanesimo la vera scienza

La cultura storica è il nostro futuro. Ma l'Italia lo ignora

27/10/2006
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Corriere della sera

Le critiche al ministro

Il
brano qui pubblicato è una sintesi della relazione che Cesare Segre tiene oggi all'Accademia nazionale dei Lincei di Roma durante il convegno «Le scienze umane in Italia.
Prospettive per la ricerca e l'alta formazione» che si è aperto ieri (fino a sabato) con interventi di Giuseppe Galasso ed Edoardo Boncinelli.
Oggi sono in programma interventi, tra gli altri, di Umberto Eco, Natalino Irti, Luciano Gallino e Paolo Macry. Sabato interverranno anche Salvatore Veca e Silvio Lanaro.
Per oggi, a chiusura della prima giornata di lavori, è atteso anche l'arrivo del ministro dell'Università e della Ricerca, Fabio Mussi. E questo avviene in un momento in cui gli accademici dei Lincei sono apparsi piuttosto critici sulle scelte del ministro approdate in Finanziaria. Tanto che l'altro ieri «Il Foglio» ha scritto che «Mussi ha incassato la bocciatura dell'Accademia dei Lincei». Gli accademici chiedono maggiori finanziamenti, concorsi più trasparenti e blocco del commissariamento degli enti culturali. La Finanziaria ha stanziato 20 milioni per la ricerca nel 2007, 40 per il 2008 e 80 per il 2009.
Il ministro ha replicato affermando di aver chiesto lui stesso una valutazione critica agli accademici dei Lincei per trovare opportune soluzioni. E ha smentito, «in maniera categorica» di voler procedere al commissariamento degli enti di ricerca.

S ono tutti d'accordo che la ricerca sia una delle attività che misurano meglio il progresso di un Paese. Ed è evidente che nel campo delle scienze umane in Italia la ricerca continua a dare risultati notevoli e riconosciuti. Purtroppo, la mentalità dominante ritiene che il vero ambito della ricerca sia quello scientifico e tiene conto solo dei risultati immediati e della fungibilità pratica. Ora, sappiamo che la fungibilità immediata delle ricerche umanistiche non è grande; ma sappiamo pure che esiste un'altra fungibilità degli studi, anche maggiore, che però si manifesta in tempi lunghi. Un avvenire di breve respiro mette in ombra il grande avvenire storico. I legislatori poi faticano a capire che gli umanisti, pur utenti di molti dei moderni ritrovati dell'elettronica, fondino la loro ricerca sui manoscritti e sui libri, insomma sulle biblioteche, custodi del nostro passato. La domanda «a che serve la ricerca storico-filologica?» diventa una mannaia nell'assegnazione dei fondi, nella distribuzione delle cattedre, e così via. I fondi vengono così sottratti a discipline nelle quali siamo i primi, o tra i primi.
Pare che non conti nulla la consapevolezza della nostra cultura, la conoscenza del nostro patrimonio letterario e artistico, la capacità di muoverci nel mondo, di gerarchizzare motivi e finalità, di usare i filtri di una critica del reale. I talenti sviluppati dall'insegnamento di tipo umanistico sono utili nelle imprese o nella politica, come dimostra la carriera di molti manager e uomini di Stato, persino al massimo livello. Per questo il laureato o il dottore in scienze umane è spesso preferito a chi ha una preparazione più tecnica e all'apparenza più fruibile. E la richiesta di nostri laureati negli Stati Uniti, tanto più avanzati nella ricerca scientifica, è dovuta in gran parte a questa apertura mentale, A riprova, è sempre più viva in America la tendenza ad affiancare alle discipline di carattere tecnico insegnamenti filologico-letterari, con lo scopo di sviluppare le capacità appena indicate.
La smania di aggiornamento, l'illusione dell'utilità pratica ha trovato fautori anche nell'ambito delle scienze umane. Accenno soltanto all'istituzione di cattedre, dipartimenti e facoltà intitolati a nuove prospettive e tecniche. In certi casi si tratta davvero di riordinare e di sottolineare finalità; ma più spesso, a mio parere, s'inseguono illusioni e fate morgane. È indubbio che la gamma delle applicazioni e delle tecniche si trasforma a vista d'occhio, e che le novità attraggono i giovani. Ma quando i nuovi laureati avvieranno un'altra ricerca, quella di un posto, temo che avranno brutte sorprese. Perché magari quelle prospettive e tecniche saranno già in declino, a vantaggio di altre oggi imprevedibili. È certo necessario che i docenti siano aggiornati sulle novità serie, e possano trasmettere agli studenti la capacità di assimilarle e, magari, svilupparle; ma non ha senso sbriciolare un sapere i cui principi basilari non mutano. Per gli aggiornamenti si potrà provvedere agevolmente con stage, con tirocini, training, ecc. Non si fa il bene dei giovani esibendo loro un supermercato di novità che senza dubbio non supereranno tutte l'esame del tempo. Questa corsa alla novità, anzi alla moda, è prediletta dalle università di nuova istituzione, sulle quali sarebbe utile un controllo rigorosissimo, e un serio sfoltimento, a tutela degli ignari studenti (ecco un risparmio che farebbe strillare qualcuno, ma gioverebbe a tutti). È comunque innegabile che, per una serie di fattori che andrebbero approfonditi, oggi s'impara meno e peggio che anni fa. Tant'è vero che ormai solo i dottorati sfornano giovani con buona preparazione. Una causa è quello che si potrebbe chiamare il «principio del rinvio». A ogni livello degli studi sembra ormai consolidata l'idea che il vero insegnamento, quello specialistico, verrà svolto e approfondito ai successivi livelli. Così, invece di dare ogni volta il meglio possibile, si giustifica l'approssimazione o la sommarietà, non certo migliorate da una presunta vernice d'interdisciplinarità. È per questo che s'è incominciato a parlare di «eccellenza», come di un risultato finalmente soddisfacente, che sta, con corsi appositi di dottorato o postdottorato, al culmine della catena curricolare.
A questa eccellenza non c'è che da inchinarsi, anche se sarebbe utile una definizione teorica. E occorrerebbe che non sia chi istituisce degli insegnamenti a insignirli del titolo di eccellenza, ma un comitato indipendente. Credo però che sia necessario un ripensamento delle discipline e dei curricula del triennio e del biennio, tale da portare, retrospettivamente, all'eccellenza i primi e medi livelli della didattica senza obbligare gli studenti ormai annoiati ad attraversare tutte le stazioni di un cursus troppo protratto, e senza accentuare il divario tra normalità ed eccellenza, tra estraneità e partecipazione alla ricerca.
Soprattutto, si dovrebbero abbandonare le soluzioni di compromesso, le economie, le spese-zero. Perché sia chiaro: l'Italia spende per la ricerca meno della metà degli altri Paesi avanzati. E già ora chiede ai ricercatori di aumentare il loro lavoro e le ore d'insegnamento. Si può capire che lo faccia durante l'attuale emergenza; ma occorre che al più presto si incominci il recupero, se non si vuole precipitare in una decadenza irreparabile.