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Corriere: Il buono da conservare

La classifica dei sistemi universitari

03/12/2008
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Corriere della sera

Giulio Ballio

Ai tanti scritti sull'inadeguatezza delle università italiane e sui loro difetti si è aggiunta recentemente una voce «fuori dal coro». È stata pubblicata la prima classifica internazionale dei sistemi universitari nazionali (https://www. touniversities. com — University Rankings — QSSAFE National System Strength Rankings) che mette in fila, non i singoli Atenei del mondo, bensì i sistemi di alta formazione di 40 Paesi. L'Italia ne esce abbastanza bene: è al 12?posto con un valore dell'indice globale pari al 76% di quello degli Stati Uniti. E' preceduta da Usa, Gran Bretagna, Australia, Germania, Canada, Giappone, Francia, Olanda, Corea del Sud, Svezia e Svizzera. E' dunque settima in Europa tallonata da Belgio, Irlanda, Finlandia, Austria e Danimarca; precede decisamente Spagna, Grecia, Norvegia, Russia, Repubblica Ceca, Polonia e Turchia.
Per comprendere il «miracolo» si devono analizzare i quattro indicatori parziali assunti nella formulazione della classifica. L'indicatore di «sistema» considera il numero di Atenei compresi nella lista delle prime 500 università del mondo. L'indicatore di «accesso» correla il numero di studenti frequentanti tali università alla popolazione della nazione. L'indicatore di «eccellenza» evidenzia se i criteri di attribuzione del finanziamento pubblico valorizzano il migliore Ateneo. Infine l'indicatore «economico » riconosce il livello e l'efficacia del finanziamento che la collettività dedica al sistema universitario nazionale.
Per l'Italia i valori degli indicatori di «sistema» e quello «economico» sono sostanzialmente allineati al valore dell'indice globale. Non ci dobbiamo sorprendere se l'Italia è fra le ultime al mondo per la capacità di investire selettivamente negli Atenei meglio posizionati nelle classifiche internazionali: tutto il mondo sa che, negli ultimi 12 anni, soltanto il 2% del finanziamento statale italiano è stato ripartito tra gli Atenei in base a parametri vagamente meritocratici. Costituisce invece una sorpresa decisamente positiva constatare che l'Italia è in terza posizione al mondo, dopo Usa e Australia, per numerosità di allievi iscritti in una delle università presenti nella lista delle prime 500 nel mondo.
Due semplici osservazioni. Più di trent' anni fa venne deciso di liberalizzare gli accessi alle Università per elevare il livello culturale del nostro Paese. All'Università per pochi venne chiesto di trasformarsi in una buona Università per molti. Oggi gli studenti universitari sono circa 1.800.00, pari al 22% della popolazione di età compresa tra i 19 e 30 anni; per il 94% frequentano Atenei statali; il loro numero è stazionario da qualche anno. Coniugare università di «massa » con università di «élite» è stata una sfida tutta italiana, che non ha similitudini in altri Paesi. Questa classifica conferma che il sistema universitario statale italiano è stato capace di accogliere la sfida e di raggiungere l'obiettivo che la società gli aveva assegnato.
Dopo trent'anni bisogna avere il coraggio di ridefinire gli obbiettivi dell'Università italiana. Si vuole un «buon sistema omogeneo» di formazione e ricerca, oppure si vuole imitare le altre nazioni promuovendo la competizione internazionale di alcuni Atenei? Si vuole «certificare » centralmente i percorsi formativi offerti dai diversi Atenei o si vuole incentivare orientamento e mobilità degli studenti in funzione dei loro desideri e dei bisogni della collettività? Queste risposte non toccano ai docenti, al singolo ateneo, alla Crui. Sono la società, le istituzioni, in primo luogo il governo, a dover definire gli obbiettivi mettendo a disposizione le risorse necessarie per raggiungerli. Solo a valle di queste decisioni si potrà discutere in modo costruttivo sul mantenimento del valore legale del titolo di studio, su come impostare il sistema di accreditamento, di controllo e di valutazione delle attività dei singoli atenei, sui sistemi più adatti della loro «governance», sulla compartecipazione degli allievi al finanziamento delle università, sulla molteplicità delle loro sedi territoriali e della loro offerta formativa e di ricerca, sulle modalità di acquisizione di risorse umane.
Limitarsi al taglio di qualche ramo inutile e alla definizione di norme sempre più «centralistiche» non può migliorare il nostro sistema universitario, ma gli farà perdere anche quelle qualità che oggi la classifica internazionale gli riconosce. Abbandoniamo le facili nostalgie del passato, accorgiamoci che le esigenze della nostra società sono radicalmente cambiate rispetto a quarant'anni fa, ragioniamo sulle nostre specificità. Solo così il nostro Paese potrà realizzare il sogno di avere un sistema universitario sempre più competitivo e adeguato alle esigenze della nostra collettività.
Rettore del Politecnico di Milano