Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Corriere: Il prof: alunni senza freni ma io resisto

Corriere: Il prof: alunni senza freni ma io resisto

«Io, insegnante babysitter Insulti e ironie. Ma resisto» I problemi della scuola visti dalla parte dei professori. Assediati da alunni spesso poco attenti, qualche volta anche violenti Ossessionati dall'obbligo ministeriale di completare il programma Perseguitati da genitori che li considerano avversari o badanti

20/03/2007
Decrease text size Increase text size
Corriere della sera

Insegnare? La collisione tra l'ossessione ministeriale per il completamento del programma e ragazzi che non si concentrano. «Io contratto 40' di attenzione promettendo mari e monti» dice un prof.

Un ragazzo mi ha chiesto 8 in pagella: così la madre gli avrebbe comprato l'auto nuova

Antonio Ferrero insegna psicologia. «Non sappiamo più cosa fare»

N
onostante il corso di preparazione al concorso e quello su «conoscenze, competenze, capacità» dell'anno di prova, nonostante il seminario integrativo di pedagogia e quello sulla misteriosa scienza della docimologia, il professor Antonio Ferrero si rese conto che in classe non lo stava seguendo nessuno, neppure i secchioni dei primi banchi.
Quel giorno, mise da parte i buoni precetti e umiliando la sua anima di insegnante progressista si abbandonò alla più classica delle sfuriate, riversando ira e urla sugli apatici allievi. Calò il silenzio. Poi, dall'ultima fila, si alzò l'alunno più cattivo, che prese ad avanzare lentamente verso la cattedra. Al professore, incerto se compiacersi dell'improvvisa quiete o preoccuparsi per la sua incolumità fisica, iniziò a risuonare in testa una musica morriconiana da spaghetti western. Calmo, padrone della situazione, il ragazzo con bandana in testa gli disse: «Prof, lei deve scopare di più». E tornò al banco, tra le risate dei compagni.
«Ho capito che i ragazzi erano abituati alla visione di un professore che va fuori di testa, che per loro non c'era alcun motivo di arrabbiarsi. Tutto normale, tutto previsto». Il malessere è ovunque. Nelle scuole che i documenti ministeriali definiscono con orrida sintesi «a rischio» come nei licei più prestigiosi delle grandi città, persino nella tranquilla Cuneo del professor Ferrero, aria paciosa, occhiali e aspetto da «prof». Quello che racconta il lungo rosario di storiacce che mischiano scuola e cronaca nera è soprattutto il disagio di chi fa un lavoro fondamentale e difficile, mettendo quotidianamente in scena se stesso in quello che è rimasto l'unico luogo dove generazioni diverse stanno insieme per ore, giorni, mesi. Il mestiere è cambiato, e non si tratta più solo di insegnare, se anche nei documenti di indirizzo la scuola viene rappresentata come un luogo che deve essere «contenimento di pulsioni ed open space di idee».
E loro, i professori? Anche se in uno dei tanti test ai quali è stato sottoposto nella sua ancora giovane carriera, è stato inserito con sua sorpresa nella categoria «docenti missionari», il quasi quarantenne Antonio Ferrero non si considera un novello don Milani. Ma, nel mezzo di una carriera cominciata 14 anni fa, almeno vorrebbe capire quel che fa, e come lo dovrebbe fare. Nel 2005 aveva spedito una testimonianza amara a Domenico Chiesa e Cristina Trucco Zagrebelsky, che la inserirono in quel «La mia scuola» pubblicato da Einaudi che rimane come una delle più belle testimonianze su un mestiere che ha perso le antiche certezze e al quale rimangono solo interrogativi.

Oggi, Ferrero è appena tornato dalla gita scolastica a Venezia, dove era stato raggiunto dalla telefonata della madre di una sua allieva, furibonda perché alla figlia non era stato servito il tè a colazione, «e questo la destabilizza». I genitori dei suoi alunni lo trattano «come una babysitter», e sono soddisfazioni, dice lui. Ma avendo davanti a sé un paio di decadi prima della pensione, preferisce andare oltre il piangersi addosso in scolastichese che spesso sembra essere il tratto dominante di molti suoi colleghi. «Poche balle — dice —. Sindacati e ministero non rendono la vita semplice a chi vuole lavorare. Ma la responsabilità principale è nostra. In classe ci andiamo noi, la libertà di insegnamento è una delle poche certezze di questo mestiere. Nella scuola tutto è consentito. Se uno non vuol fare nulla, può farlo. Ma è possibile anche il contrario».
La storia dei suoi dieci anni di insegnamento si dispiega in una mezza dozzina di località del tranquillo e opulento Nord Ovest, da Biella a Cuneo, passando per Saluzzo, Fossano e Alba. Nel 1993, la scuola italiana era alla vigilia di uno dei cambi epocali che periodicamente la contraddistinguono. Molto prima delle tre «I» berlusconiane (Inglese, Internet, Impresa), andavano di moda le tre «C» di conoscenze, competenze, capacità, che avrebbero dovuto mettere i docenti in condizione di insegnare ai loro allievi a «saper essere». Così dicevano e dicono le ambiziose linee-guida. Nei fatti, è stato diverso. «Per sei anni sono andato avanti con supplenze e ore di sostegno per ragazzi che faticano. Piccolo dettaglio, lo facevo in Istituti per geometri, insegnando materie a me ignote. Ricordo come un incubo le lezioni di Topografia ed Estimo a un ragazzo sordo, che ne sapeva molto più di me. Ma così, altro paradosso, accumulo punteggio per una cattedra di filosofia. Nel 2000 vinco il concorso da "ordinario" a Saluzzo. Però non ci sono posti liberi per filosofia, e mi ritrovo a insegnare psicologia, mai fatta all'università, alle ex Magistrali di Cuneo. L'anno prossimo potrei essere altrove, nessuna certezza».
Quella di Ferrero è pur sempre la vita media di un insegnante di provincia, ma proprio questa medietà aiuta a capire come sia diventata complicata. A lui che viaggiava sull'auto di seconda mano del padre, un ragazzo ha chiesto se poteva dargli 8 in pagella a prescindere, «così la mamma mi compra la Golf Gtd nuova». Ha dovuto schivare le insidie di una madre che tramava contro un suo collega: «Se mio figlio va così bene in psicologia, come può prendere brutti voti in matematica? È un complotto». Ha chiesto invano lumi su come valutare i suoi alunni cinesi, bravissimi nell'orale ma quasi completamente incapaci di scrivere con i nostri caratteri; si è trovato uno «sconvolti dalla noia» come unico e collettivo commento alla proiezione in classe dei 400 colpi di Truffaut.
Il quotidiano di un insegnante consiste nella collisione tra l'ossessione ministeriale per il completamento del programma e ragazzi che hanno sempre più difficoltà a concentrarsi. «Io mi affido a un bieco mercimonio. Contratto 40 minuti della loro attenzione promettendo mari e monti. Ma sono trattative difficili». È questa l'amarezza di chi vorrebbe tornare a sentirsi utile. La sensazione di essere in un ingranaggio che cambia spesso per rimanere uguale a se stesso. «Ogni ministro dell'Istruzione si sente in dovere di lasciare un'impronta. Se va bene, cambia solo la maturità, altrimenti anche il resto. Iniziative decise senza avere mai davvero il polso della situazione. Il risultato è che non sappiamo più cosa fare».
A un mese dal matrimonio con una collega, Ferrero guadagna 1.270 euro al mese, non sa dove gli toccherà di insegnare il prossimo anno, e ogni tanto gli capita di odiare il suo lavoro. Ma non tornerebbe mai indietro. Nella scuola di Utopia, dice, gli stipendi dovrebbero essere raddoppiati, per evitare quei consigli di classe dove bisognerebbe confrontarsi tra docenti, ma invece nessuno parla e tutti tirano fuori le cartelline con il secondo lavoro. «Va bene anche così, per carità. Questo mestiere si sceglie. Ma c'è una domanda che mi assilla da quando ho cominciato: siamo sottoposti a dei test attitudinali a nostra insaputa? Siamo inconsapevoli protagonisti di una riedizione di Candid camera? Vi lamentate della nostra impreparazione, pensate di "introdurre il merito", e per accedere alla professione ci fate frequentare corsi dove non viene mai bocciato nessuno. Per quella che pomposamente chiamate "guerra tra generazioni" ci fornite di temibili baionette di latta. Ma, senza imbarazzo o vergogna, venite a dirci che a questi ragazzi "tremendamente complicati" dobbiamo non solo spiegare il programma, ma soprattutto insegnare a saper essere. È uno scherzo, vero?».