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Corriere: «Io ricercatrice dico: non vogliamo solo essere promossi»

La lettera di Serena Scotto ricercatrice all’Università di Genova e la risposta di Francesco Giavazzi

27/07/2010
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Corriere della sera

Caro professor Giavazzi, sono una ricercatrice di Economia politica della Facoltà di Economia di Genova, ricercatore attempato (53 anni), scientificamente «non attivo» secondo la definizione ministeriale, viceversa estremamente attivo in didattica, attività gestionale e diffusione della conoscenza (che non significa semplice insegnamento, ma forse qualcosa di più). Per la mia lunga esperienza in Facoltà (dal 1984) e per alcune attitudini personali, credo di essere considerata un interlocutore valido da molti colleghi. Mi sono trovata così a condividere e supportare il movimento di protesta dei ricercatori genovesi (che si riconosce in quello nazionale della «rete29aprile») da una posizione per così dire privilegiata, visto che non sono «ricattabile» (è una brutta parola, lo so...). La mia battaglia è quindi solo in difesa di valori, ben difficilmente ne trarrò qualche vantaggio personale. D’altra parte una spiegazione, anche se parziale, del perché sono rimasta ricercatrice sta proprio nel mio carattere un po’ donchisciottesco, e nel mio orgoglio. Ma non mi dilungo su questo. Da brava Don Chisciotte, dopo averci riflettuto, mi risolvo a scriverle. Potrei scriverle soltanto, come hanno fatto altri miei colleghi, che mi sento offesa dalla sua affermazione a proposito dell’ope legis. Ma non mi darebbe nessuna soddisfazione, e non servirebbe a niente. Tra l’altro, capita che chi è assorbito in provette e alambicchi a volte non abbia il tempo di occuparsi di molto d’altro e quindi (è difficile essere tuttologi) di Francesco Giavazzi sappia solo che è un professore della Bocconi (ahinoi, una università privata!) che si diletta a scrivere sul Corriere di università pubblica (e cosa mai ne può sapere se lavora nel privato?). Invece io so chi è Francesco Giavazzi, conosco i suoi contributi scientifici, e anche il suo coinvolgimento in passato sia presso il Ministero del Tesoro nei primi anni ’90 sia nel gruppo dei consulenti di D’Alema. Per questa ragione, il suo intervento sul Corriere mi amareggia particolarmente. Non comprendo come nella sua posizione lei possa apparire così male informato. E come possa fare un intervento così pesante sul maggior quotidiano italiano proprio in un momento così delicato (momento non scelto a caso, ma questo è inutile dirlo). Vorrei soffermarmi solo su questo passaggio: «In queste ore ricercatori e professori associati premono per essere tutti promossi ope legis. La nuova legge li protegge fin troppo. A chi già lavora nell’università riserva di fatto i due terzi di tutti i nuovi posti: solo un nuovo docente ogni tre proverrà da fuori...». Non ci sono in questo momento in giro per il Paese significativi movimenti di ricercatori (di associati non so) che premono per una ope legis. C’è invece una diffusa preoccupazione a proposito di un Ddl che mette in concorrenza nelle progressioni di carriera ricercatori a tempo indeterminato con le nuove figure a tempo determinato, di fatto privilegiando i secondi, visto che tra un Rti e un Rtd entrambi in possesso di abilitazione non è difficile attendersi che le università «si mettano una mano sulla coscienza» e chiamino il Rtd: con che cuore mandare a spasso una persona, che nella migliore delle ipotesi avrà già 35 anni, per quanto fornita di un salvagente che le permetterà di transitare su un'altra amministrazione pubblica? E come prendersi la responsabilità di rinunciare all’apporto di un promettente studioso, posteggiandolo magari all’ufficio delle dogane? Non si può fare una colpa agli attuali ricercatori se vedono minacciate le loro legittime prospettive di carriera (prospettive coltivate anche a prezzo di una lunga gavetta come docenti, a volte senza nemmeno un incarico ufficiale... anche questo contribuisce a sentirsi discriminati). E la preoccupazione va oltre, mi creda, il proprio personale orizzonte: la preoccupazione si spinge avanti a considerare lo scenario complessivo. Quale giovane «si fiderà» ad intraprendere un percorso sul quale c’è un’unica certezza (la durata di 6 anni) e molte ombre, non ultima una remunerazione tutt’altro che allettante? Forse chi non vuole o non può lasciare casa, o non ha serie proposte alternative... altrimenti il mondo è grande, e promette molto di più. E se ci ritrovassimo con una bella accolita di ricercatori Td mediocri? Sarebbe la morte dell’Università pubblica. Se università privata volesse dire Bocconi, Luiss, Cattolica... beh, qui è questione di scelte e di valori, ma ci potremmo accontentare (mi scusi, non per la qualità, che è indiscussa ovviamente, ma per il principio: personalmente ritengo che l’istruzione debba essere pubblica)... peccato che di università privata spazzatura cominci ad esserci in giro un bel campionario! Sarebbe allora la fine della ricerca, e non devo essere io a dirle che qui si gioca il futuro del nostro Paese. Mi permetta di aggiungere che il nostro eccellente ministro è stato l’unico a non difendere i tagli stipendiali dei suoi, il che la dice lunga su come in Italia si pensi al futuro... Mi piacerebbe che trovasse un piccolo spazio per rispondermi, in un modo appena un po' argomentato. Non mi deluda... dialogare è segno di intelligenza, e di apertura mentale. Io ci conto...

«Il vero nodo è liberare i posti dei vecchi prof»
Cara Scotto, grazie per la lettera, molto argomentata. Cercherò di esporle il mio pensiero, convinto come lei che dialogare serenamente è un segno (ormai sempre più raro nel nostro Paese) di civiltà. Innanzitutto (pur avendo trascorso metà della mia vita professionale in università o istituzioni pubbliche) sono orgoglioso oggi di insegnare in un’università che, diversamente da quelle pubbliche, non fa sovvenzionare ai poveri l’istruzione dei ricchi. Il sistema delle fasce prevede che per accedere alla Bocconi una famiglia con un reddito lordo superiore ai 106 mila euro paghi un po’ più di 10 mila euro di retta universitaria l’anno. Al di sotto di 47 mila euro di reddito si pagano circa 4 mila euro, con la possibilità di esenzione per famiglie con redditi particolarmente bassi. Questo è possibile (senza contributi pubblici che alla Bocconi finanziano solo alcune borse di dottorato) grazie alla retta relativamente elevata per le fasce più alte. Sono anche orgoglioso di insegnare in un’università nella quale il sistema di valutazione dei corsi da parte degli studenti ha compiuto 30 anni e il rettore ha l’abitudine di convocare i docenti le cui valutazioni sono problematiche. Dove un addetto della segreteria ha il compito di entrare (per un attimo) in aula a 5 minuti dall’orario previsto per l’inizio della lezione e verificare se il professore c’è e quanti studenti stanno seguendo la sua lezione. Su certezze, percorso professionale e remunerazioni poco allettanti, vorrei ricordare che negli Stati Uniti i contratti di assistant professor sono per 6 anni senza evidentemente alcuna certezza. La paga pare buona, ma solo se si dimentica che in quel Paese la scuola spesso è privata e non appena si forma una famiglia si deve cominciare a risparmiare per pagare il college dei figli (spesso 40-50 mila dollari, non 8 o 9) quando essi avranno 18 anni. E ciononostante in quel Paese la selezione funziona. Alla ricerca e all’insegnamento non accedono i figli dei ricchi ma chi in quel mestiere riesce particolarmente bene. La Bocconi offre da un decennio contratti simili e circa una metà dei nostri assistant professor oggi non sono italiani. Alcuni al termine dei 6 anni vengono confermati, altri no, e lasciano per altre università o più spesso per lavori fuori dall’università. Ma questa incertezza non pare influire sulle domande che sono sempre più numerose dei posti disponibili. È difficile sapere che cosa pensino in media i ricercatori e sono convinto come lei che moltissimi non vogliono ope legis. Osservo tuttavia che delle centinaia di emendamenti presentati in Parlamento, i più frequenti riguardano proprio le «quote riservate», cioè scalzerebbero il vincolo che almeno un posto su tre (!) sia riservato a una generazione che nell’università non ha avuto la fortuna di entrare, neppure da precario. Io non so chi abbia ispirato questi emendamenti, ma certo non quella generazione di esclusi. Ma il punto fondamentale è quello che ho affrontato alla fine del mio articolo. Se la legge non toccherà l’età di pensionamento, nei prossimi anni di posti nell’università non ve ne saranno, neppure se passasse uno di quegli emendamenti che riserva tutti i nuovi posti disponibili a chi già c’è. Questa è la battaglia da fare. Se quell’età scendesse a 65 anni i posti sarebbero relativamente numerosi e anche il vincolo dei 2 su 3 diverrebbe meno stringente. Si è pronti a condurre questa battaglia?