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Corriere: Italia, povera ricerca

Nei laboratori italiani trionfa l’arte di arrangiarsi. Con passione e rabbia, rincorrendo l’Europa

22/01/2009
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Corriere della sera

Articolo 9. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Il dettato della Costituzione italiana impone al governo di fare scelte strategiche, finanziare gli studi, sostenere chi ha deciso di passare buona parte della sua vita in laboratorio o comunque laddove si sperimenta il futuro della scienza. Eppure in tutte le statistiche l’Italia arranca: gli investimenti, pubblici e privati, dedicati alla ricerca sono un misero 1,1% del Pil, contro una media europea dell’1,8%. Da tempo gli Stati membri dell’Unione si sono posti l’obbiettivo di arrivare al 3% entro il 2010 e, in piena crisi, la Svezia ha deciso di raggiungere il 4%. Le Tigri asiatiche volano per conquistare nuovi primati in brevetti&Co. E gli Usa restano un miraggio: solo in biomedicina, oltre il 60% dei fondi parte da lì. Il grido di dolore che si alza dai laboratori nostrani è univoco, forte e poco ascoltato. In un mondo sempre più competitivo, l’Italia s’è fermata. Ingessata. Lo spauracchio non è tanto la riforma Gelmini - qua e là si alza perfino un plauso al tentativo di introdurre criteri di meritocrazia, come l’Anagrafe nazionale dei professori e ricercatori universitari che registrerà le pubblicazioni scientifiche prodotte - ma i tagli preannunciati da Tremonti. «Il problema è quantitativo e qualitativo. I soldi sono pochi, maldistribuiti e manca quella visione prospettica di lungo periodo che poco interessa al mondo politico», denuncia Pier Paolo Di Fiore, direttore dell’Ifom di Milano (finanziato dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro) dove si studia il ruolo delle cellule staminali nell’insorgenza del tumore. Il verdetto è implacabile: «Senza aumentare la quota di finanziamenti pubblici alla ricerca non si va da nessuna parte. Non ci si può nascondere dietro alla crisi economica: è un alibi politico, i fondi sono sempre stati insufficienti e nei momenti di crisi proprio la ricerca dovrebbe essere tagliata per ultima; gli anglosassoni lo sanno bene». Guidati da chi sta (davvero) in prima linea, abbiamo cercato di capire cosa manca per formare quel tessuto di ricerca indispensabile a una nazione. E perché. All’Università si studia, ci si laurea, si prosegue con il dottorato. Nessuno però insegna cosa vuol dire fare ricerca. Che significa, sì, stare in mezzo a provette e reagenti, ma an che conoscere bene l’inglese, inviare grant application per rispondere ai bandi, redigere rendicontazioni scientifiche, cioè spiegare in modo chiaro e sempre in inglese i risultati del proprio lavoro, pubblicare su riviste specializzate, inserirsi in network internazionali.

Michèle Barocchi, italo-americana di 37 anni, dopo PhD e master alla UC Berkeley in immunologia e malattie infettive ha fatto una scelta controcorrente ed è approdata al centro di vaccinologia della Novartis, a Siena, un’isola d’eccellenza for profit sempre più rara in Italia. Oggi ringrazia i suoi mentori: «Nel sistema universitario americano il tuo professore non è una figura astratta ma una persona che ti segue, crede in te e investe il suo tempo per farti crescere professionalmente. Se il giovane poi ha successo, hanno successo anche i suoi docenti e la stessa università. In Italia la figura del mentore non esiste». È bene sapere, però, che l’Italia ha lo stesso rapporto docente/studenti (1/11) dell’Inghilterra, considerata il miglior sistema universitario europeo.

DOPO IL POSTDOC, IL PRECARIATO
L’università è per tutti, la ricerca no. «Gli aspiranti ricercatori devono trascorrere un periodo all’estero per confrontarsi e imparare a inserirsi in network internazionali »: è il coro dei senior. Il dilemma è cosa fare dopo. Il sismologo Lapo Boschi, dopo il dottorato ad Harvard, è tornato con il programma “Rientro dei cervelli” nel 2001: «Non ho neppure finito i miei tre anni…». Difficoltà logistiche e pratiche lo hanno spinto a lasciar Napoli per volare, con stipendio doppio, all’Istituto di geofisica a Zurigo, Svizzera. Porta un cognome importante - suo padre Enzo è presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia - ma non ne ha approfittato e anzi critica un sistema che non premia il merito. «In Italia è esplosa la protesta dei precari perché molti ricercatori hanno ricevuto promesse che oggi non possono essere più mantenute. Ma la chiave del problema non sta lì. Anche in Svizzera, come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, i giovani sono precari. La differenza è che qui siamo retribuiti molto bene, con contratti rinnovabili a lungo termine, ed è una strada che, prima o poi, arriva a una posizione permanente se uno fa bene il suo lavoro. In Italia non c’è alcuno stimolo». Tornare? «Mio padre dice “se fossi in te andrei in Usa…”». All’estero, di norma, non ci sono concorsi e chi assume preferisce prendere uno scienziato brillante, perché questo porterà soldi e prestigio anche alla struttura. In Inghilterra, se il neo-assunto non funziona ne risponde chi lo ha chiamato. In Italia no. Diventi ricercatore se vinci un concorso. I tempi a volte sono infiniti, gli stipendi poveri. Nella biomedicina, ad esempio, il primo livello dell’università viene raggiunto in media dopo 10 anni dalla laurea, con uno stipendio d’ingresso di 1400 euro al mese. Dopo 7-8 anni diventi professore associato con una paga di circa 2000 euro e l’ultimo gradino, professore ordinario, arriva dopo altri 5-10 anni a 2700 euro. Se tutto va bene. «È un Paese dove non c’è ricambio per i giovani bravi. Chi ce la fa, deve poi impiegare l’80% delle sue energie per raccogliere soldi attraverso canali faragginosi e per spenderli in altre vie faragginose», sostiene Angelo Vescovi, che ha partecipato alla scoperta delle staminali cerebrali in Canada e poi è tornato in Italia per trovare una cura alla sclerosi laterale amiotrofica.

A CACCIA DEI SOLDI
Un posto da ricercatore non garantisce automaticamente la possibilità di fare ricerca. Soprattutto se si fa affidamento sui fondi pubblici, che spesso arrivano a singhiozzo o non arrivano affatto. Anche per le prestigiose missioni in Antartide: «Pure quest’anno il ministero della Ricerca ha sbloccato con forte ritardo, a campagna già iniziata, 10 milioni di euro che servono a malapena per la manutenzione delle nostre due basi. Ne servirebbero 20-25. Alla base Concordia, sul plateau antartico, abbiamo mandato sette uomini per verificare la strumentazione, i francesi sono giù in 30 e fanno ricerca», spiega Massimo Frezzotti, glaciologo dell’Enea: «A partire dalla finanziaria 2006, i soldi sono spariti e si va avanti di anno in anno attingendo ai fondi ordinari del ministero. Fino all’ultimo non sappiamo mai se i finanziamenti saranno sbloccati e così stiamo perdendo tutti i ragazzi che abbiamo tirato su in questi anni: vanno all’estero o cambiano mestiere ». L’Italia ha partecipato a Epica, progetto europeo che ha permesso l’estrazione di una carota di ghiaccio con cui si stanno studiando le condizioni climatiche fino a 800.000 anni fa. Ora la comunità internazionale sta cercando siti idonei per iniziare una perforazione che arrivi a 1.500.000 anni fa: «L’Italia decida in fretta o siamo fuori». I soldi sono pochi, discontinui e pure frammentati. Ci sono i bandi del ministero dell’Università e della Ricerca ma poi ogni ministero, e ogni Regione, ha un suo piccolo gruzzoletto da investire in ricerca. «Spesso sono rivoli che neppure si intersecano», denuncia Elena Cattaneo, che dirige il centro di ricerca sulle cellule staminali all’Università di Milano. «Manca la voglia di individuare i settori chiave in cui possiamo competere da posizioni di forza. E manca una gestione efficiente dei finanziamenti: come avviene negli altri Paesi, i fondi pubblici dovrebbero essere erogati solo attraverso competizioni pubbliche a cui tutti possono accedere, a prescindere da titoli o età. Solo una piccola percentuale dei soldi destinati alla ricerca, invece, viene messa a bando, con procedure trasparenti. Il 90% è erogato a discrezione degli amministratori, attraverso un negoziato diretto con il singolo ricercatore ». Tutto legale, nonostante i rischi di conflitti d’interesse o di pregiudizi ideologici. Com’è avvenuto con la ricerca sulle cellule staminali embrionali: «Alcuni bandi l’hanno esclusa dai finanziamenti benché, nonostante le polemiche, in Italia sia assolutamente legale ». Se il giudizio politico prende il sopravvento su quello scientifico, il giovane e brillante ricercatore fa meglio a rivolgersi altrove. Ad associazioni no profit e soprattutto a finanziamenti dall’estero (Elena Cattaneo ha cominciato così, nel ’94: 50 milioni di lire da Telethon e altri 50 dall’American association contro l’Alzheimer, «a quei tempi non ero nessuno e sono state valutate solo le idee, come dovrebbe succedere sempre»). Nota bene: le due principali charities italiane (Airc e Telethon) erogano meno di 100 milioni di euro l’anno, pochi ma ambiti.

E VINCA IL MIGLIORE
È una corsa ad ostacoli, perché di norma per partecipare a bandi internazionali si devono presentare dei risultati preliminari - quindi a ricerca avviata - o far parte di un network d’eccellenza, e i partner ti vogliono solo se sei forte. È la (dura) legge del mercato. «In Italia si può fare ricerca di qualità, anche nell’ambito degli enti pubblici, ma rispetto ai colleghi stranieri per noi la strada è molto più in salita», conferma Ilaria Capua dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, dove dirige il laboratorio di referenza internazionale per l’influenza aviaria e altre malattie animali trasmissibili all’uomo. «Tutta la mia attività di ricerca si autofinanzia. Stiamo lavorando su cinque progetti della Ue e partecipiamo a un network of excellence con cospicui finanziamenti europei, lavoriamo con la Fao e molti altri organismi internazionali, privati e pubblici. A questi livelli, uno deve essere in grado di confrontarsi e competere. Ammesso che un progetto passi al vaglio delle commissioni valutatrici internazionali, però, in Italia c’è un apparato burocratico che non tiene il passo: a livello amministrativo, servirebbe uno staff in grado di riempire la modulistica, fare resoconti in inglese, conoscere la legislazione e meccanismi complessi dei progetti europei, cercare attivamente i bandi. Oggi tutto ciò è demandato al singolo ricercatore che deve farsi carico di una serie di attività che non gli competerebbero. D’altra parte, soldi a pioggia non ne arrivano e nell’era della globalizzazione non si può restare certo chiusi nel proprio orticello come si faceva 50 anni fa. Sono indispensabili i contatti internazionali». Per trovare i soldi, meglio dunque guardare oltreconfine. In primis, tenendo d’occhio i bandi della Comunità europea che lavora secondo Programmi quadro quinquennali o FP (il 2009 è il terzo anno dell’FPVII). Con una novità che riceve il plauso di Luca Guidotti, un ricercatore appena rientrato dagli Usa, dopo quasi vent’anni allo Scripps Institute della California, il più grande centro di ricerca privato non profit al mondo, per dirigere il centro di ricerca sul diabete al San Raffaele di Milano. «Da due anni, il 10% del budget comunitario per la ricerca è distribuito, attraverso l’European research council, a singoli ricercatori meritevoli attraverso il metodo peer review, ovvero tramite una commissione di esperti internazionali (dagli italiani il record di 1.600 richieste; solo 35 hanno passato il vaglio fra cui ben 13 di ricercatori che lavorano all’estero, ndr). Molti scienziati stanno facendo lobbying affinché il 100% dei fondi passino dall’Erc». Il modello, per Guidotti, resta quello americano, che tra l’altro impone una netta separazione delle carriere: «O fai ricerca o fai il professore. Chi fa ricerca a livelli competitivi deve dedicarsi a tempo pieno a trovare finanziamenti e portare a casa risultati. Certo, laggiù ci sono soldi: il National institute of health (equivalente dell’Istituto superiore di sanità) eroga, solo in campo biomedico, 30 miliardi di dollari l’anno. In tutta Europa si arriva a malapena a 2 miliardi. Però l’Italia sta regalando agli americani la formazione di chi, come me, emigra. La mia università è stata pagata dal contribuente italiano e io, fino a 46 anni, non ho ridato nulla al sistema Italia».

LE CARRIERE FANTASMA
Le menti non mancano, manca un percorso di carriera. «Idealmente, i dottorati devono essere dinamici, ambiziosi e brillanti per farsi un nome e partecipare ai concorsi, tenendo sempre a mente che il mondo della ricerca, per sua natura, deve essere competitivo. Ti confronti con i migliori. O sei credibile o sei tagliato fuori». Piero Genovesi è zoologo-tecnologo all’Istituto nazionale per la fauna selvatica, oggi inglobato nell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Ha partecipato a grossi progetti europei, fatto parte di commissioni valutatrici di governi all’estero (quelle serie sono quasi sempre internazionali per evitare fenomeni di autoreferenzialità o nepotismo. In Italia no), partecipa a network di ricerca. Guadagna 1.800 euro netti al mese, non ha avuto alcun avanzamento di carriera in 13 anni ed è lapidario: «Mi ostino a cercare finanziamenti per i miei progetti anche se non ho alcun interesse diretto: non è che se pubblico di più ho maggiori prospettive di carriera e i fondi che raccolgo mi danno solo un sacco di rogne amministrative. All’estero lavorerei di più, guadagnerei il doppio e soprattutto avrei la possibilità di cercare avanzamenti di carriera muovendomi tra istituto e istituto. In Italia manca un sistema di valutazione meritocratico, serio e oggettivo. È vero che nella riforma Gelmini ci sono segnali che sembrano andare in questa direzione ma è altrettanto vero che poi servono le risorse per applicarli. Se non dai la possibilità a chi è valutato di trovare progetti o incarichi, anche a tempo determinato, la valutazione da sola non serve a molto. Se saranno confermati i tagli, temo che sarà tutto inutile». Settori diversi, frustrazioni simili. Rosa Di Felice, dopo due anni postdoc in California e anni di borse/contratti temporanei in Italia, è stata una delle ultime ricercatrici entrate all’Istituto nazionale per la fisica della materia tramite il meccanismo tenure track: «Molto usato all’estero, è una forma di contratto che può diventare automaticamente a tempo indeterminato previa valutazione di merito, senza ulteriore concorso».

Da noi molti centri di ricerca, primo fra tutti il Cnr, non lo riconoscono. «Ora ho un contratto fisso ma non vedo un naturale percorso di carriera, basato su una corretta valutazione dell’esperienza e dell’eccellenza scientifica. Posso fare concorsi per passare ai livelli superiori - primo ricercatore, che equivale a professore associato d’università, e poi primo dirigente, equivalente a professore ordinario - ma i concorsi sono perlopiù bloccati». Aspettando Godot, continua a cercare bandi: «Lavorare su progetti stimola il ricercatore, d’altra parte è sempre più pressante da parte europea la richiesta di indirizzare la ricerca verso applicazioni industriali o comunque redditizie nell’immediato. Questo atteggiamento mette in crisi la ricerca di base, che anche in un settore in rapido sviluppo come quello delle nanotecnologie ha un impatto prevedibile in 10-20 anni». A differenza di Paesi come la Germania, anche il sistema produttivo italiano, fatto soprattutto di piccole-medie imprese, non offre sbocchi ai precari della ricerca. «Non essendoci molta richiesta, è diversa anche la sensibilità politica. E questo porta a una mancanza di visione strategica ». Claudio Gatti, fisico delle particelle all’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati, torna indietro nel tempo: «In Italia negli anni Settanta non si riteneva strategico il televisore a colori, così fummo invasi da apparecchi tedeschi perché i nostri non erano pronti. Ora potremmo puntare su nanotecnologie o energie rinnovabili. È quello che dice Obama in Usa: per uscire dalla crisi, bisogna investire su settori strategici che in futuro saranno molto importanti». In assenza di un nuovo approccio alla ricerca, avverte Gatti, «la mensa del Cern a Ginevra è piena di italiani, ma con contratti stranieri». «Da un punto di vista scientifico si perde molto a restare qua», conferma Francesco Sala, professore di biologia vegetale all’Università di Milano. Lui è rimasto e, in pensione da due mesi, continua tra mille difficoltà le sue ricerche. «Non ho mai preso soldi da aziende private, con 200.000 euro l’anno mando avanti un gruppo di dieci persone su un progetto che misura gli effetti sull’ambiente del riso e pioppo OGgm». Tanta fatica, qualche buon risultato e un po’ di rabbia, come quando uno dei suoi “ragazzi” si è presentato all’ultimo concorso: «Portava 36 lavori di ricerca, pubblicati a livello internazionale. Hanno preferito l’altro, che aveva appena tre pubblicazioni a livello italiano».

Sara Gandolfi