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Corriere: La quantità non è un criterio per valutare il merito

Università Il progetto di legare i finanziamenti per gli atenei alla produttività del personale docente

06/02/2009
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Corriere della sera

di CESARE SEGRE

Uno dei gesti più nefasti della contestazione del '68 e seguenti fu il vilipendio della «meritocrazia». I più non furono convinti, è ovvio, ma rimase un certo scrupolo a esplicitare il rapporto tra una promozione o una nomina e i meriti di chi ne godeva. Ora, a parole, si vuole far dipendere finanziamenti e aumenti di stipendio dalla qualità o produttività dell'opera prestata da una persona o gruppo di persone. E si tende a definire dei criteri «oggettivi» per valutare i meriti.
Facciamo una breve rassegna delle idee che si affermano, ormai quasi dappertutto, esemplificando sul settore dell'Università e della ricerca. Una è quella di quantificare la produttività scientifica del personale docente. Il Comitato Universitario Nazionale ha già formulato qualche proposta, per fortuna bloccata dal ministro dell'Istruzione, che però non si sa che progetti abbia. Nelle proposte del Cun s'indicavano i criteri minimi per l'ammissione degli studiosi ai concorsi universitari. Il principale si basa sul numero di monografie o di articoli pubblicati. Ma se si vuole tener conto, ed è inevitabile, del diverso operare dei ricercatori nei diversi campi di ricerca, si dovrà definire una fenomenologia così variegata da bloccare chi valuterà i candidati. Quantità e misura dei lavori scientifici variano persino secondo il tipo di ricerche: se una richiede elencazioni esaustive e descrizioni, un'altra può seguire una linea dimostrativa funzionale, se una può avvalersi di analisi formali, un'altra abbisognerà di statistiche, se in un caso sarà utile ripercorrere tutta la storia di un problema, in un altro si potrà puntare subito alle novità di metodo e di tecnica. E già in articoli giornalistici si è osservato che Einstein ha rivoluzionato la fisica con pochi decisivi articoli, mentre conosciamo tutti i poligrafi che sfornano due o tre volumi, inutili, all'anno.
Un altro criterio di valutazione si trae (il procedimento è già applicato in molti Paesi, ma non ancora per gli ambiti umanistici, e si capirà subito perché) dalla classificazione degli organi (riviste, atti di congresso, miscellanee scientifiche) in cui ogni candidato ha reso pubblici i risultati delle sue ricerche. Se uno studioso pubblica prevalentemente su organi di categoria A, sarà da considerare superiore a chi scrive su organi di categoria B o C. Ed ecco allora elucubrazioni sui criteri di classificazione. Ma l'importanza, poniamo, di una rivista non si basa su dati formali, spesso secondari: si basa sulla sua storia, sulla competenza di chi l'ha diretta e la dirige, sull'autorità che si è conquistata. Tutti gli specialisti di una qualunque disciplina sanno indicarti con sicurezza gli organi più prestigiosi. D'altra parte, i ricercatori hanno anche il giusto desiderio di rendere presto pubblici i risultati raggiunti, per motivi sia di priorità, sia di carriera (vedi prima!). Se non trovano posto su un organo di categoria A (dove è facile finire in una lista d'attesa di due o più anni), accetteranno l'ospitalità di un organo di categoria B o C. E così le differenze tra categorie diventano molto sfumate.
Né si può fondare la classifica sui tipi di organizzazione, abbastanza vari, delle riviste specialistiche. Molte oggi, per esempio, tendono a sfoggiare «comitati scientifici» ricchi di nomi di personalità nazionali e straniere. Posso assicurare per esperienza che si tratta di una pura esibizione: i membri di quei comitati non vengono praticamente mai consultati, sicché spesso si accetta di stare anche in decine di comitati, dove si fa soltanto mostra di sé sul frontispizio, naturalmente senza compenso. Chi decide sulle scelte sono e saranno sempre i direttori, e bisognerebbe giudicare il loro valore, ciò che pare escluso da questa impostazione.
In questa rassegna di stupidità, va ricordato il cosiddetto «impact factor», cioè il numero di citazioni nei lavori scientifici dello studioso da valutare: l'autore più citato sarebbe il migliore. In queste valutazioni, ancora una volta, e significativamente, poco affermate nel campo umanistico, si può prevedere che gli scritti su temi d'attualità, o persino di moda, otterranno molte più citazioni di quelli su temi più raffinati o al momento poco battuti. Insomma, un invito alla banalità. Ma per arrivare al paradosso: uno studioso che, poniamo, è stato citato cento volte con giudizi negativi, passerà davanti a uno citato solo cinquanta volte con grandi lodi. Si dirà: ma i valutatori possono tener conto del tenore delle citazioni. No, perché in queste misurazioni vige il criterio numerico, non si entra nel merito.
Eccoci al punto. La valutazione non può essere un calcolo, è un giudizio, di una persona precisa su un oggetto preciso. Il giudizio richiede competenza in chi giudica, e analisi scrupolosa dell'oggetto giudicato, che non è un numero, ma un prodotto dell'intelligenza. Il giudizio non sarà mai assoluto, non solo perché il giudice può sbagliare, ma anche perché può avere preconcetti, finalità extrascientifiche, eccetera. Ma il rimedio non sta nel cercare un'oggettività impossibile, sta nel rendere il giudizio pubblico, e perciò contestabile se fazioso, sta nel ricorrere ai giudizi di altri specialisti, magari mediante un dibattito. Ognuno mette in gioco la propria competenza. Ci sarebbe allora da domandarsi perché oggi, come risulta da questi tentativi di valutazione senza giudizio, si sia così incapaci di giudicare e renitenti all'essere giudicati, ma è un altro discorso.