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Corriere: Laureati in cerca di lavoro. All’estero

L’analisi I ricercatori dell’Ipsos e del Cnel hanno esaminato attese e propositi di chi sta finendo gli studi Il giudizio Per il 75% degli universitari e per l’85% degli studenti all’ultimo anno delle superiori nel nostro Paese non ci sono opportunità di impiego

29/09/2009
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Corriere della sera

Due su tre sono pronti a lasciare l’Italia per fare carriera Paura del precariato. La lista dei mestieri «da non fare»

La domanda è stata fatta agli stu­denti dell’ultimo anno di uni­versità, ormai ad un passo dalla laurea. Stagione di passaggio, quando i sogni sono ancora intatti ma si co­mincia a fare i conti con la realtà che si agita là fuori, il lavoro, lo stipendio, la carriera. «Cercherà un posto al­l’estero nei prossimi 12-18 mesi?». A sentire le risposte rischiamo lo spopo­lamento. Il 30,2 per cento dice che sì, cercherà lavoro in un altro Paese, un altro 33 per cento ci sta pensando se­riamente. Insomma due aspiranti dot­tori su tre potrebbero fare le valige e trasferirsi all’estero, mentre solo il 36,8 per cento giura che resterà sicura­mente sul suolo patrio. Un dato che a prima vista ha sorpreso gli autori del­lo studio, i ricercatori dell’Ipsos e del Cnel, il Consiglio nazionale per l’eco­nomia e il lavoro. Perché se confron­tiamo queste intenzioni di voto con il numero reale degli espatri, la fuga si trasforma da regola in eccezione. Solo il 4 per cento dei ragazzi laureati nel 2007 ha trovato davvero un posto ol­tre confine. È vero, sono comunque 11.700 dottori, rispetto al 1999 il loro numero è triplicato. Ed è anche vero che non sempre chi cerca trova, una cosa è mandare un curriculum, un’al­tra firmare una lettera d’assunzione. Ma tutti gli altri che fine hanno fatto? Una spiegazione la tenta Domenico De Masi, che guarda al problema con le lenti della storia: «Dal 1900 al 1910 — spiega il professore di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma — in Italia si laureavano 6 mila persone l’anno. E la metà non sceglieva ma era costretta ad andare all’estero». Anche il professore, in famiglia, ha avuto due laureate in farmacia che sono fini­te negli Stati Uniti, a Philadelphia. «Ri­spetto al lontano passato — aggiunge — l’Italia offre più lavoro, chi va al­l’estero non è costretto ma decide di farlo. E non essendo costretti sono molti quelli che, dopo i primi slanci, cambiano idea». Un ragionamento condiviso dal consigliere del Cnel Elio Ciaccia: «Molti ragazzi hanno una va­lutazione un po’ romantica della real­tà. Alcuni di loro pensano che all’este­ro sia tutto meglio, tutto più facile. Ma poi, all’atto pratico, si accorgono che è vero solo in parte».

Per capire bisogna andare più in profondità. E vedere perché quei due aspiranti dottori su tre sotto la tesi tengono pronto il passaporto. Il 75 per cento degli universitari (e addirit­tura l’85 per cento degli studenti all’ul­timo anno delle superiori) sostiene che l’Italia non offre abbastanza op­portunità di lavoro. Tra i difetti del no­stro Paese che li spingono a fuggire, indicano la tendenza delle nostre aziende a privilegiare i contratti a ter­mine e il precariato, la difficoltà di es­sere assunti senza esperienza, la diffu­sione delle raccomandazioni, mentre la crisi economica si piazza solo agli ultimi posti. Tutte cose che all’estero non ci sono? «Sulla protezione sociale — dice Ciaccia, il consigliere del Cnel — i ragazzi hanno ragione. A differen­za di quanto avviene in altri Paesi eu­ropei la perdita del posto, fenomeno frequente in un sistema flessibile, non è accompagnata da un sostegno del reddito capace di mettere al sicuro il lavoratore. Su tutto il resto, invece, ha un certo peso quella valutazione ro­mantica di cui parlavamo prima».

Ragionamento di pancia più che di testa? Una conferma il professor De Masi la legge nella lista dei Paesi stra­nieri che gli universitari italiani sce­glierebbero come approdo per la loro fuga. Al primo posto gli Stati Uniti, poi l’Inghilterra, molto più indietro la Germania, la Spagna, e poi la Svezia che supera anche la Francia. New York, Londra: certo, lì si parla inglese, la lingua straniera più conosciuta an­che da noi. Potrebbe essere questa la ragione della scelta. Ma oltre a quella razionale c’è una spiegazione mitolo­gica: «Per decenni — dice De Masi — abbiamo detto che negli Stati Uniti non c’era disoccupazione, che chi è bravo si fa da solo e via discorrendo. Questo valeva quando da loro i disoc­cupati erano il 4 per cento e da noi il 15». Ma adesso? «Adesso siamo tutti e due al sette per cento, negli Stati Uniti ci sono più di 6 milioni di homeless e la metà di loro ha meno di 30 anni. Il mito è rimasto ma non corrisponde più alla realtà».

Estero o Italia, cosa cercano gli aspi­ranti dottori quando mandano un cur­riculum? Prima di tutto una ricca bu­sta paga. Da questo punto di vista la strada dell’estero ha il suo perché: in Europa il primo stipendio per un lau­reato supera i 1.700 euro al mese nel 43 per cento dei casi. Da noi i «fortu­nati » sono meno della metà. Dopo i soldi, i giovani italiani chiedono di avere la possibilità di fare carriera, di essere sicuri (leggi posto fisso), ma anche di poter lasciare libera la mente finite le otto ore lavorative. «Una paro­la che i giovani non vogliono più sen­tire — dice Ciaccia, il consigliere del Cnel — è fatica. Molti di loro cercano un impiego d’ufficio, meglio se a due passi da casa, con un capo simpatico, scarse responsabilità e un orario ridot­to ». Proprio partendo da questo ragio­namento il corposo rapporto è stato intitolato dal Cnel «La scomparsa del­la fabbrica», prima tappa di una serie di indagini sul riposizionamento com­petitivo delle nostre imprese dopo la crisi.

Non solo per i futuri dottori ma an­che per gli aspiranti diplomati l’opera­io rappresenta una sorta di condanna professionale, la fine di tutte le aspira­zioni. «Se dico che faccio l’impiegata — è una delle risposte raccolte dagli autori della ricerca — mi vedo in ca­micetta e pantaloni. Invece come ope­raia mi vedo con la tuta blu: è il lavo­ro meno qualificato che ci sia». L’ope­ratore di call center, il receptionist, l’impiegato di infimo livello sono pro­fessioni ritenute socialmente più ac­cettabili. Nella classifica dei lavori che i laureati italiani non vorrebbero mai fare, peggio dell’operaio ci sono sol­tanto il meccanico, il parrucchiere, l’estetista, il lavoratore di un fast fo­od, il militare e lo spazzino. I diploma­ti aggiungono a queste categorie quel­le di dentista, medico, idraulico (ma non volevano guadagnare tanto?) ed insegnante. Al primo posto, sia per i laureati che per i diplomati, c’è il mu­ratore. «Ci sono lavori faticosi che non sono pericolosi — commenta De Masi — e lavori pericolosi che non so­no faticosi. Quello del muratore è uno dei pochi che unisce la fatica al perico­lo. È una risposta che non mi sorpren­de ». I muratori, infatti, sono tutti stra­nieri » .

Lorenzo Salvia