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Corriere: Le Università si mobilitino dopo la lista di proscrizione

Caro direttore, La vicenda della vera lista di proscrizione della pretesa «lobby ebraica» pro Israele che avvilupperebbe le università italiane coinvolge in duplice modo le istituzioni accademiche del Paese

11/02/2008
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Corriere della sera

Caro direttore, La vicenda della vera lista di proscrizione della pretesa «lobby ebraica» pro Israele che avvilupperebbe le università italiane coinvolge in duplice modo le istituzioni accademiche del Paese. Innanzitutto perché non può essere tollerato che una parte dei docenti venga minacciata senza mettere in discussione la libertà e l'incolumità dell'intero corpo accademico, che esistono solo in quanto une e indivisibili. Già questo chiama in causa gli organi di autogoverno del sistema universitario, indipendentemente dall'azione, doverosa, dei poteri repressivi dello Stato. Una istituzione così gelosa della sua autonomia deve attraverso i suoi massimi organismi rigettare in modo pubblico e formale l'intimidazione rivolta a una parte dei suoi componenti, chiunque ne sia l'autore. Non basta la privata solidarietà o la dichiarazione individuale di questo o quel rettore.
Chiedo dunque, sicuro che quest'auspicio, avrà seguito positivo, che i senati accademici delle università italiane votino documenti non solo di condanna ma contenenti impegni positivi contro il ripetersi di episodi analoghi, le cui origini - ecco il secondo punto di connessione fra «lista nera» e università - affondano in fatti gravi avvenuti all'interno del mondo universitario di importanti paesi della Unione Europea, che ledono le fondamenta della libertà di ricerca. La «lista nera» è stata riconosciuta dai suoi promotori come l'elenco dei firmatari di un appello del 2005 contro l'iniziativa di universitari inglesi volta a boicottare ricerche congiunte con ricercatori e\o istituzioni scientifiche israeliane. Non era il primo episodio del genere. Già nel 2002 l'Università Paris VI aveva votato una mozione in cui si chiedeva all'UE di non rinnovare gli accordi di cooperazione scientifica con Israele e le sue università salvo poi, per parare le critiche, sostenere che quella posizione era contro gli accordi istituzionali ma che, di contro, occorreva operare per sviluppare i contatti interpersonali con ricercatori israeliani e palestinesi, per favorire il dialogo fra due parti. E fu scandalo, anche perché da tempo la Francia assisteva e assiste a rigurgiti antisemiti che tra l'altro hanno prodotto una significativa crescita dell'emigrazione di ebrei francesi e la presa di posizione di Paris VI era pressoché contemporanea all'attentato a uno delle più note personalità liberali ebraiche d'Oltralpe. Il premio Nobel Claude Cohen-Tannoudji, scrisse allora un articolo (pubblicato in Italia da «La stampa » dell'8 gennaio 2003 ) dal titolo Francia, mi vergogno in cui, tra l'altro, scriveva: «Mi vergogno di quei colleghi che osano scagliare un anatema su altri colleghi a causa della loro nazionalità. Mi vergogno di quei colleghi che, di fronte a un conflitto doloroso dove due popoli soffrono crudelmente e quotidianamente, scelgono di demonizzare una delle due parti anziché cercare di avvicinarle l'una all'altra». Penso che il ripetersi di accadimenti analoghi proponga la necessità di integrare la posizione di Cohen-Tannoudji. La internazionalità, o il cosmopolitismo, della ricerca è parte costitutiva della sua libertà. Proporsi di delimitare in alcun modo non solo, in astratto, la libera circolazione delle idee ma, in concreto, il libero formarsi del sapere, attività che per esplicarsi ha anche vitale bisogno di mezzi materiali, è un atto che contraddice una delle regole fondamentali della ricerca. E un ricercatore che sostenga una tale posizione merita d'essere valutato come un fisico che presentasse un progetto di ricerca volto a dimostrare che la gravità universale è un'invenzione di Isaac Newton per favorire se stesso e i propri amici o di un astronomo che chiedesse d'essere finanziato per dimostrare che non v'ha dubbio che sia il sole a girare intorno alla terra.
Gli organi di governo degli atenei italiani non possono volgere lo sguardo altrove di fronte a qualsiasi attentato alle regole base della libertà di ricerca. Se lo facessero insidierebbero la stessa ragion d'essere delle università.
Roberto Finzi
(storico e docente universitario)