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Corriere-"Noi islamici, a scuola con gli italiani"

Milano, la storia di tre ragazzi dai banchi della comunità musulmana a quelli di un liceo scientifico "Noi islamici, a scuola con gli italiani" Un corso estivo che prepara alle classi ...

17/07/2004
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Corriere della sera

Milano, la storia di tre ragazzi dai banchi della comunità musulmana a quelli di un liceo scientifico

"Noi islamici, a scuola con gli italiani"

Un corso estivo che prepara alle classi multietniche. "Farò la pediatra, curerò i vostri bimbi"

MILANO - "Quest'estate? Forse vado a Gardaland. E qualche fine settimana al mare. Ma spero che finiscano presto, le vacanze. Mi annoiano, e ho voglia di iniziare la scuola". May, 15 anni e un sorriso furbo appena trattenuto che mal si addice a una "secchiona" tutta libri, sta finendo l'ultimo tema dell'anno. Le dita corrono sui tasti del computer. A fianco, seri e silenziosi, i fratelli Taha, 16 anni, e Sarah, 15. I tre appartengono alla stessa comunità, quella egiziana, e vengono dalla stessa scuola: quella islamica di via Quaranta, a Milano. E' il 15 luglio, May, Sarah e Taha sono ancora sui banchi. E mentre molti coetanei hanno già dimenticato zainetto e diari, loro - insieme a Àlvaro e Davis, peruviani, e ai fratelli Arrol e Jeremy, arrivati sei mesi fa da Manila - ancora combattono cocciuti con verbi e congiunzioni. In italiano. Quello che si insegna nel corso estivo del Liceo scientifico Marconi, quartiere Lorenteggio, periferia Sudovest di Milano, istituto capofila della Rete Octopus, uno dei "poli" di alfabetizzazione per stranieri. Un corso di un mese, per preparare gli studenti "neoarrivati" che si sono iscritti al Marconi per l'anno scolastico entrante. Perché Taha, Sarah e May in autunno inizieranno le superiori, proprio nelle aule in cui si trovano ora. Insieme con tutti gli altri studenti, milanesi per nascita o per "adozione", "nativi" o migranti. Un progetto di integrazione che segue una logica "altra" rispetto a quella, recentemente bocciata dal ministero dell'Istruzione, delle classi separate, come nella proposta dell'istituto milanese "Agnesi". Una logica di convivenza e apertura. E tanto impegno.
Il volto di May, incorniciato da un velo nero leggero come un soffio, è concentrato. Ci tiene a non fare errori. "L'italiano? Prima lo parlavo poco, con un'amica, nel cortile di casa. Sono stata alla scuola della nostra comunità, lì studiamo l'arabo, l'inglese. Un po' invidio i miei fratelli più piccoli, loro vanno alla scuola italiana. Perché sono rimasta in quella egiziana? Avevo iniziato l'asilo lì, c'erano tutti i miei amici...". Fa spallucce. Come a dire: è andata così, quasi per caso. Al suo fianco, Sarah sorride. E' molto timida, anche se, racconta il maestro Roberto D'Onofrio, quando si tratta di intervenire non si tira certo indietro. "Questi ragazzi sono molto determinati, hanno voglia di comunicare. Sanno che li aspetta un lavoro duro, perché in uno scientifico va assorbito anche il lessico specifico delle materie. Il corso dà loro sicurezza. Per non sentirsi emarginati, anche quando bene accolti". Come è successo ad Àlvaro. Che, arrivato in Italia quasi sette mesi fa, di fronte ai compiti in classe di Fisica sapeva dire solo due parole, spalancando gli occhi nerissimi: No entiendo . Oggi, dice, è contento. Sa che in autunno potrà scherzare con i compagni, gli stessi da cui prima si sentiva "osservato". Ed è felice di aver conosciuto altri "come lui". Come i ragazzi di via Quaranta, che in questa microclasse eterogenea (all'appello oggi mancano un'americana e due sorelle dalla scuola egiziana, pure iscritte al Marconi, ma già partite per le vacanze) sono gli unici nati e cresciuti in Italia.
Andranno al liceo scientifico, dunque. Quando gli si fa notare che la scelta è impegnativa, non battono ciglio. Del resto, hanno sogni nel cassetto che giustificano la decisione, sostenuta senza remore dalle famiglie. Alla domanda "che cosa vuoi fare da grande", negli occhi di Sarah si accende una scintilla: "La dottoressa. No, non il chirurgo: quella che cura i bambini. La pediatra, ecco. Dove? In Italia". La sua sicurezza lascia poco spazio ai dubbi. Ed è condivisa dall'amica May: anche lei pediatra, anche lei in Italia. Taha, invece, vuole diventare insegnante. Alle elementari. In Egitto? "Nooo. Qui, nelle scuole italiane". Nel gruppo, anche due futuri ingegneri informatici (Àlvaro e Jeremy) e un veterinario (Davis). Lo studio non li spaventa, anzi: chiusi i libri di italiano, tra pochi giorni Àlvaro si butterà su un corso di informatica. Sospira. "Per fortuna c'è il calcetto. Giochiamo insieme, siamo forti. Anche se Taha, insomma...". Ridono. "Ogni tanto andiamo al cinema. Peccato che l'ultima volta ci siamo sbagliati, il film era bello, The day after tomorrow , ma era in inglese. L'unico che lo sa bene è Jeremy, ma non è che sia stato tanto utile...". Ridono, di nuovo.
Fuori, in via dei Giacinti, c'è il sole. Il traffico di viale Lorenteggio, denso e intermittente, separa le casette basse di via dei Fiordalisi e via delle Primule, memori di come una volta, qui, "fosse tutta campagna", dalle file di condomini abbrustoliti dal sole. I ragazzi salutano il maestro, i bidelli, la preside, e lasciano la scuola, come ogni studente italiano a fine anno. Sono i protagonisti di una nuova via all'integrazione, e forse neppure lo sanno. Quando escono, la sacca per il calcetto sulle spalle e gli chador , i libri sottobraccio e i sorrisi, sono solo il fermo immagine perfetto di un'Italia possibile.
Gabriela Jacomella