Corriere. Passo coraggioso ora la svolta
di FRANCESCO GIAVAZZI
Pagano e Jappelli sono tra i migliori economisti europei. Se nelle recenti graduatorie del Ministero le università di Napoli e di Salerno — dove entrambi hanno insegnato per oltre vent’anni— sono andate un po’ meglio di altri atenei del Mezzogiorno, è anche grazie alle loro pubblicazioni. Più volte hanno ricevuto offerte attraenti da università prestigiose, le più recenti da Princeton e dalla London School of Economics: se non hanno mai abbandonato Napoli è per dimostrare che anche in quella città tanto difficile è possibile scrivere articoli per l’ American Economic Review e formare studenti che spesso hanno grande successo nelle migliori università americane. È quindi auspicabile che il ministro Gelmini presti particolare attenzione a quanto essi scrivono.
Il problema che pongono Jappelli e Pagano è la sopravvivenza dei gruppi di ricerca eccellenti, e ne esistono molti, in diverse discipline, nelle università del Mezzogiorno. Per rimanere all’università di Napoli, gruppi eccellenti esistono in genetica (il Tigem di Andrea Ballabio) e nella stazione zoologica Anton Dohrn diretta da Roberto Di Lauro.
«Se volete obbligarci ad emigrare — è la conclusione implicita nel loro articolo — ditecelo apertamente ». Perché dovrebbero emigrare? Se l’assegnazione dei fondi pubblici alle università dipende dalla valutazione «media» della qualità della ricerca, i rari gruppi eccellenti sono destinati ad annegare nella mediocrità che li circonda, quindi poco a poco a sparire. Sarebbe un male la concentrazione della ricerca in poche università del Nord? Io penso di sì perché sprecherebbe capitale umano: basti guardare ai numerosi studenti di Pagano e Jappelli che oggi insegnano in Gran Bretagna o negli Stati Uniti (più raramente in Italia dove un mercato accademico non esiste). Molti di loro, se quel gruppo di ricerca a Napoli non fosse esistito, avrebbero finito per fare gli avvocati, la professione tipica dei ragazzi svegli del Mezzogiorno.
Ma il rischio maggiore è che casi come questo vengano abilmente sfruttati da chi non vuole che il merito entri nell’assegnazione dei fondi alle università. La decisione del ministro Gelmini di allocare una quota, pur minuscola, dei finanziamenti pubblici sulla base della qualità della ricerca è stato un passo coraggioso, ma il difficile viene ora. Le riforme graduali devono essere costantemente aggiustate e questo è un esempio. Come? Un modo immediato, e attuabile già quest’anno, è accompagnare il trasferimento dei fondi con una lettera pubblica del ministro al rettore nella quale si individuino i gruppi di ricerca e i singoli ricercatori di quell’ateneo che hanno contribuito ad alzare la quota di fondi assegnata in funzione del merito. Un’altra possibilità è seguire l’esempio spagnolo, dove la quota che dipende dal merito non si somma al totale dei fondi che l’università riceve, ma prende la forma di «cattedre ad personam » assegnate ai migliori ricercatori dell’ateneo — se ne esistono — da una commissione internazionale. Un metodo simile è seguito in Canada. È anche necessario che i criteri seguiti nell’allocazione della quota assegnata in funzione del merito siano completamente trasparenti: i criteri seguiti quest’anno, e consultabili sul sito internet del ministero, sebbene in principio coraggiosi, risultano poi annegati in un linguaggio burocratico, da cui traspare riluttanza ad accettare fino in fondo cosa sia l’eccellenza nella ricerca. È un’insufficienza di trasparenza che attenua la percezione degli effetti dell’innovazione voluta dal Ministro.
Ma aggiustare le riforme strada facendo non basta. Le riforme graduali non possono arrestarsi, altrimenti vengono soffocate. È quindi essenziale che il ministro già nelle prossime settimane presenti al Parlamento il disegno di legge di riforma della governance e del reclutamento che da mesi tiene nel cassetto. E poi affronti con coraggio il tema del valore legale delle lauree. La storia della nostra università è piena di buone iniziative delle quali nessuno più si ricorda perché abbandonate e presto sopraffatte. Il ministro Gelmini ha una scelta: o accelera la riforma e lascia un segno tangibile sull’università o anche lei, come tutti i suoi predecessori, avrà abbandonato l’università alla sua deriva e sarà presto dimenticata.