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Corriere: Pubblico impiego: più donne, poche dirigenti

Uno studio dell’Anci registra la «resistenza» alla scelta di capi al femminile in tutti i settori. Unica eccezione: le sovrintendenze. Alla base la parità è stata raggiunta ma i vertici restano tutti maschili In aumento il numero dei sindaci rosa Poi c’è il capitolo università

14/08/2009
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Corriere della sera

Aumenta, anche se di poco, la percentuale delle donne sin­daco. All’ultima tornata elet­torale, qualche fascia tricolore in più ha virato sul rosa. Ma c’è poco da sta­re allegri. Nelle amministrazioni co­munali, nelle principali istituzioni del Paese, nei ministeri e negli uffici pubblici il numero di donne che la­vorano è uguale se non superiore ri­spetto a quello degli uomini. Le posi­zioni di vertice e dirigenziali restano però un pianeta decisamente ma­schile e in molti casi anche maschili­sta. E in un Paese che pure ha espres­so personalità femminili di primissi­mo piano nella ricerca scientifica in­ternazionale come Rita Levi Montal­cini o Margherita Hack, il caso più clamoroso è proprio nel mondo acca­demico. Le università italiane sono dominate dagli uomini. Solo il 2,4% dei rettori degli atenei sono donne. E anche fra i professori ordinari c’è una netta prevalenza maschile. Sono questi alcuni dei dati che emergono da uno studio di Cittalia, la fondazio­ne dell’Anci, l’Associazione naziona­le dei comuni d’Italia.

«Non c’è da stupirsi — commenta Renata Polverini, leader dell’Ugl —. Parlo da sindacalista ma anche da donna. E quello che si vede nella pubblica amministrazione non mi piace proprio. Laddove si entra per merito, per concorso, le donne van­no avanti. Dove invece c’è un ele­mento di giudizio soggettivo, vanno avanti gli uomini. Qualcosa non tor­na ». E Michele Gentile, capo del di­partimento della Funzione pubblica della Cgil, aggiunge: «Purtroppo gli incarichi dirigenziali restano appan­naggio degli uomini probabilmente per una motivazione semplice quan­to stupida, sbagliata, arretrata e ini­qua: persiste infatti la convinzione che la donna, dovendo farsi carico anche delle questioni familiari e do­mestiche, sia meno indicata degli uo­mini a ricoprire incarichi di respon­sabilità. Pregiudizi da Medioevo».

Anche per Renata Polverini c’è un problema culturale, ma non solo: «Da un lato servono interventi legi­slativi per incentivare le donne. Ma serve un approccio culturale più mo­derno. E serve un welfare diverso, le donne che vogliono far carriera de­vono poter contare su asili che fun­zionano, tanto per fare un esem­pio... ».

Dalla Confindustria, invece, con una punta d’orgoglio sottolineano come «nel privato non è così. Noi stessi abbiamo un presidente donna che è un imprenditrice di successo (Emma Marcegaglia, ndr ) e nelle multinazionali ci sono tantissime di­rigenti anche giovani, perché il meri­to e le competenze sono la chiave del successo di un’impresa che alla fine dell’anno deve far quadrare i conti».

Nel pubblico, però, il quadro è ben diverso. L’analisi della fondazio­ne Cittalia è partita dagli enti locali. E dei 148 mila amministratori comu­nali italiani, è risultato che le donne rappresentano poco meno di un quinto del totale (17,6%). Salendo nella gerarchia, solo il 10,3% dei sin­daci è donna. In realtà, dopo l’ulti­me elezioni, il dato ha registrato una leggera crescita. Infatti, prima delle amministrative di giugno le donne sindaco erano appena il 9,8% del to­tale. Nei 12 comuni con popolazione superiore ai 250 mila abitanti, 3 so­no amministrati da donne: Milano da Letizia Moratti, del centrodestra; Genova e Napoli rispettivamente da Marta Vincenzi e Rosa Russo Iervoli­no, del centrosinistra. Ma in molte città, come Roma, invece, non c’è mai stato un sindaco donna. Fra l’al­tro, secondo i sindacati della funzio­ne pubblica, anche nelle aziende con­trollate dai comuni delle grandi città sono pochissime le donne ai vertici, anche dove esiste la cosiddetta dop­pia nomina, politica per la presiden­za, tecnica per la gestione: le donne sono tagliate fuori da entrambe. E il colore politico delle giunte non c’en­tra. Le donne sono più presenti nella vita politica comunale nelle regioni del Nord, mentre è ancora piuttosto bassa la partecipazione femminile nelle regioni del Sud, in particolare in Calabria e in Sicilia, dove si regi­strano alcuni casi di piccoli comuni con la quota di consiglieri donne in­feriore al 4%. La fondazione Cittalia ha poi este­so la ricerca ad altri settori della vita sociale. E la tendenza che emerge dalla prima lettura dei dati è una cre­scita generalizzata della presenza femminile negli uffici pubblici. Trend questo comunque positivo, anche se poi nei ruoli di vertice gli uomini la fanno da padroni. La cer­tezza dunque è che ci sono sempre più donne, anche se poi fanno poca carriera. Come nella magistratura or­dinaria: le donne rappresentano or­mai il 40,5% dei giudici in servizio at­tivo. Ancora non è la parità, ma nel giro di qualche anno secondo il mini­stero della Giustizia si potrebbe arri­vare al 50% perché «in ogni concor­so registriamo un incremento delle presenze femminili sia fra i parteci­panti, sia fra i vincitori». Le donne togate sono sempre più numerose, dunque. Ma il problema è la loro pre­senza nelle posizioni di maggiore re­sponsabilità. Le donne che hanno raggiunto incarichi di vertice, anche nei ranghi della Giustizia dove ci si aspetterebbe maggiore equità, sono pochissime.

Negli uffici pubblici, nei ministeri e negli enti locali, comunque, sia a livello centrale, sia in periferia, negli ultimi dieci anni c’è stata una costan­te crescita della presenza femminile. E oggi il 53,4% degli impiegati della pubblica amministrazione sono in­fatti donne. La parità, alla base della piramide, è stata dunque superata. Fra i colletti bianchi, però, la presen­za rosa diminuisce velocemente sa­lendo di grado. Le donne che rico­prono cariche dirigenziali di primo livello nei ministeri sono solo il 14,5%. Stessa situazione per gli orga­ni periferici dello Stato: le donne pre­fetto titolari di prefettura sono appe­na il 9,7% del totale. E fra i questori titolari di sede non c’è una sola don­na. «Purtroppo l’ambiente della poli­zia, nonostante ci siano tantissime bravissime donne, resta molto ma­schile e maschilista», osserva la Cgil. L’unica eccezione è nelle sovrinten­denze ai beni archeologici: qui le donne hanno raggiunto la sospirata parità nelle posizioni dirigenziali (50%).

Poi c’è il capitolo università. Le donne sono abbastanza rappresenta­te al primo step della carriera: sono il 42,9% del totale dei ricercatori, con punte sopra il 50% nelle materie umanistiche e nella biologia. Poi la carriera si inceppa. E le donne che ar­rivano al rango di professore associa­to sono meno del 26%. Andando avanti la selezione per sesso è anco­ra più dura: solo il 15,9% dei profes­sori ordinari sono donne. E — come ha scritto Cittalia nello studio — «an­che in alcune facoltà storicamente a forte prevalenza femminile (per esempio farmacia, psicologia, lette­re, filosofia) la percentuale di docen­ti ordinari è sempre molto sbilancia­ta a favore della componente maschi­le ». Insomma, la materia conta po­co. I vertici del mondo accademico sono infatti quasi interamente riser­vati agli uomini: i rettori donna so­no 4 in tutta Italia (due di università, due di scuole superiori di livello uni­versitario).