Corriere: Pubblico impiego: più donne, poche dirigenti
Uno studio dell’Anci registra la «resistenza» alla scelta di capi al femminile in tutti i settori. Unica eccezione: le sovrintendenze. Alla base la parità è stata raggiunta ma i vertici restano tutti maschili In aumento il numero dei sindaci rosa Poi c’è il capitolo università
Aumenta, anche se di poco, la percentuale delle donne sindaco. All’ultima tornata elettorale, qualche fascia tricolore in più ha virato sul rosa. Ma c’è poco da stare allegri. Nelle amministrazioni comunali, nelle principali istituzioni del Paese, nei ministeri e negli uffici pubblici il numero di donne che lavorano è uguale se non superiore rispetto a quello degli uomini. Le posizioni di vertice e dirigenziali restano però un pianeta decisamente maschile e in molti casi anche maschilista. E in un Paese che pure ha espresso personalità femminili di primissimo piano nella ricerca scientifica internazionale come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack, il caso più clamoroso è proprio nel mondo accademico. Le università italiane sono dominate dagli uomini. Solo il 2,4% dei rettori degli atenei sono donne. E anche fra i professori ordinari c’è una netta prevalenza maschile. Sono questi alcuni dei dati che emergono da uno studio di Cittalia, la fondazione dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia.
«Non c’è da stupirsi — commenta Renata Polverini, leader dell’Ugl —. Parlo da sindacalista ma anche da donna. E quello che si vede nella pubblica amministrazione non mi piace proprio. Laddove si entra per merito, per concorso, le donne vanno avanti. Dove invece c’è un elemento di giudizio soggettivo, vanno avanti gli uomini. Qualcosa non torna ». E Michele Gentile, capo del dipartimento della Funzione pubblica della Cgil, aggiunge: «Purtroppo gli incarichi dirigenziali restano appannaggio degli uomini probabilmente per una motivazione semplice quanto stupida, sbagliata, arretrata e iniqua: persiste infatti la convinzione che la donna, dovendo farsi carico anche delle questioni familiari e domestiche, sia meno indicata degli uomini a ricoprire incarichi di responsabilità. Pregiudizi da Medioevo».
Anche per Renata Polverini c’è un problema culturale, ma non solo: «Da un lato servono interventi legislativi per incentivare le donne. Ma serve un approccio culturale più moderno. E serve un welfare diverso, le donne che vogliono far carriera devono poter contare su asili che funzionano, tanto per fare un esempio... ».
Dalla Confindustria, invece, con una punta d’orgoglio sottolineano come «nel privato non è così. Noi stessi abbiamo un presidente donna che è un imprenditrice di successo (Emma Marcegaglia, ndr ) e nelle multinazionali ci sono tantissime dirigenti anche giovani, perché il merito e le competenze sono la chiave del successo di un’impresa che alla fine dell’anno deve far quadrare i conti».
Nel pubblico, però, il quadro è ben diverso. L’analisi della fondazione Cittalia è partita dagli enti locali. E dei 148 mila amministratori comunali italiani, è risultato che le donne rappresentano poco meno di un quinto del totale (17,6%). Salendo nella gerarchia, solo il 10,3% dei sindaci è donna. In realtà, dopo l’ultime elezioni, il dato ha registrato una leggera crescita. Infatti, prima delle amministrative di giugno le donne sindaco erano appena il 9,8% del totale. Nei 12 comuni con popolazione superiore ai 250 mila abitanti, 3 sono amministrati da donne: Milano da Letizia Moratti, del centrodestra; Genova e Napoli rispettivamente da Marta Vincenzi e Rosa Russo Iervolino, del centrosinistra. Ma in molte città, come Roma, invece, non c’è mai stato un sindaco donna. Fra l’altro, secondo i sindacati della funzione pubblica, anche nelle aziende controllate dai comuni delle grandi città sono pochissime le donne ai vertici, anche dove esiste la cosiddetta doppia nomina, politica per la presidenza, tecnica per la gestione: le donne sono tagliate fuori da entrambe. E il colore politico delle giunte non c’entra. Le donne sono più presenti nella vita politica comunale nelle regioni del Nord, mentre è ancora piuttosto bassa la partecipazione femminile nelle regioni del Sud, in particolare in Calabria e in Sicilia, dove si registrano alcuni casi di piccoli comuni con la quota di consiglieri donne inferiore al 4%. La fondazione Cittalia ha poi esteso la ricerca ad altri settori della vita sociale. E la tendenza che emerge dalla prima lettura dei dati è una crescita generalizzata della presenza femminile negli uffici pubblici. Trend questo comunque positivo, anche se poi nei ruoli di vertice gli uomini la fanno da padroni. La certezza dunque è che ci sono sempre più donne, anche se poi fanno poca carriera. Come nella magistratura ordinaria: le donne rappresentano ormai il 40,5% dei giudici in servizio attivo. Ancora non è la parità, ma nel giro di qualche anno secondo il ministero della Giustizia si potrebbe arrivare al 50% perché «in ogni concorso registriamo un incremento delle presenze femminili sia fra i partecipanti, sia fra i vincitori». Le donne togate sono sempre più numerose, dunque. Ma il problema è la loro presenza nelle posizioni di maggiore responsabilità. Le donne che hanno raggiunto incarichi di vertice, anche nei ranghi della Giustizia dove ci si aspetterebbe maggiore equità, sono pochissime.
Negli uffici pubblici, nei ministeri e negli enti locali, comunque, sia a livello centrale, sia in periferia, negli ultimi dieci anni c’è stata una costante crescita della presenza femminile. E oggi il 53,4% degli impiegati della pubblica amministrazione sono infatti donne. La parità, alla base della piramide, è stata dunque superata. Fra i colletti bianchi, però, la presenza rosa diminuisce velocemente salendo di grado. Le donne che ricoprono cariche dirigenziali di primo livello nei ministeri sono solo il 14,5%. Stessa situazione per gli organi periferici dello Stato: le donne prefetto titolari di prefettura sono appena il 9,7% del totale. E fra i questori titolari di sede non c’è una sola donna. «Purtroppo l’ambiente della polizia, nonostante ci siano tantissime bravissime donne, resta molto maschile e maschilista», osserva la Cgil. L’unica eccezione è nelle sovrintendenze ai beni archeologici: qui le donne hanno raggiunto la sospirata parità nelle posizioni dirigenziali (50%).
Poi c’è il capitolo università. Le donne sono abbastanza rappresentate al primo step della carriera: sono il 42,9% del totale dei ricercatori, con punte sopra il 50% nelle materie umanistiche e nella biologia. Poi la carriera si inceppa. E le donne che arrivano al rango di professore associato sono meno del 26%. Andando avanti la selezione per sesso è ancora più dura: solo il 15,9% dei professori ordinari sono donne. E — come ha scritto Cittalia nello studio — «anche in alcune facoltà storicamente a forte prevalenza femminile (per esempio farmacia, psicologia, lettere, filosofia) la percentuale di docenti ordinari è sempre molto sbilanciata a favore della componente maschile ». Insomma, la materia conta poco. I vertici del mondo accademico sono infatti quasi interamente riservati agli uomini: i rettori donna sono 4 in tutta Italia (due di università, due di scuole superiori di livello universitario).