Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Corriere: Rocca: pochi fondi all'Università, non si tocchi il Mit italiano

Corriere: Rocca: pochi fondi all'Università, non si tocchi il Mit italiano

Il vicepresidente di Confindustria: solo 1,5 miliardi per la ricerca? Una cifra da impresa, non da Paese

24/09/2006
Decrease text size Increase text size
Corriere della sera

Confindustria vuole mettere l'infinito dibattito sull'università italiana con i piedi per terra. In questa intervista, il suo vicepresidente per l'Education (e chairman della Techint) Gianfelice Rocca avanza una serie di proposte, rivolte soprattutto al governo, per dare uno scossone subito a una situazione che vede le nostre facoltà — in particolare quelle tecnico-scientifiche che sono la chiave del futuro economico e imprenditoriale del Paese — languire in fondo alle classifiche internazionali sulla qualità.
Rocca dice che gli 1,5 miliardi previsti dalla Finanziaria per la ricerca e l'università sono poca cosa, «una cifra da impresa, più che da Paese». E che, nelle prossime settimane di trattative fra ministri, non si può pensare di sacrificare nemmeno un euro: i fondi vanno destinati all'università, anzi alle università tecnico- scientifiche migliori e più dinamiche. E fa alcune proposte su come usare il denaro e su come cambiare la governance negli atenei.
Come mai questa spinta di Confindustria sull'università?
«Il futuro dell'economia del nostro Paese è legato al cambio del suo portafoglio tecnologico. Per molti versi possiamo dire di essere la fabbrica delle fabbriche, produttori di macchinari, e questo ci ha permesso finora di competere sui mercati. In questo modo, però, fabbrichiamo anche i nostri concorrenti. Per agganciarci al futuro dobbiamo fare un salto di crescita tecnologica e le facoltà tecnico-scientifiche ne sono la chiave».
Questa Finanziaria aiuta?
«Globalmente, la Finanziaria prevede 1,5 miliardi di euro per ricerca e università su 14 destinati allo sviluppo. È una cifra da impresa più che da Paese, è la soglia minima di significatività, da difendere fino in fondo. Non si può sacrificarne nulla perché questo sforzo è la chiave per fare il salto tecnologico. Vista l'attenzione che al tema hanno sempre dimostrato sia Prodi che Padoa-Schioppa, ho fiducia».
Come usarli?
«Nel testo della Finanziaria, quando si parla degli 1,5 miliardi non si fa riferimento all'università. Nei progetti del governo ci sono cose interessanti, c'è ad esempio la proposta Bersani di fare qualcosa di simile al Progetto Beffa in Francia, cioè creare un fondo per favorire l'innovazione tecnologica
bottom-up, che nasce dal basso, dalle imprese. Ma nulla si dice di cosa cambia nell'università. È invece vitale che la Finanziaria si dia una rotta verso le università tecnologiche e usi al meglio i pochi fondi a disposizione».
Cosa proponete?
«Oggi, nell'università si finanzia in egual misura l'efficienza e l'inefficienza. Spesso, i fondi pubblici servono per rimediare alle pecche peggiori a scapito delle esperienze migliori. Se invece si potesse creare un fondo che finanzia solo chi supera certi benchmark si darebbe un incentivo al miglioramento. Questa era l'impostazione di buon senso che stava alla base del Fondo di accelerazione voluto dall'ex ministro Moratti. Mi pare di capire che ora si vorrebbe eliminarlo: sarebbe negativo».
Quindi premiare i migliori.
«E favorire la ricerca. Sarebbe utile un fondo di matching,
una dotazione — penso a due-trecento milioni — che raddoppi i fondi che i ricercatori ottengono a livello europeo sulla base di criteri internazionali. Un modo per sostenere quelle forze di qualità che nelle università non hanno incentivi. Un miliardo e mezzo non è molto: dobbiamo usarlo come driver, per eccitare e moltiplicare l'attività. Lo stesso fondo Bersani sarebbe opportuno distribuirlo attraverso un'agenzia che operi con criteri internazionali: sono le agenzie che fanno la ricerca, nel mondo, si chiamino Nasa o Nhs. Il problema è che il Politecnico di Milano ottiene fondi da agenzie di questo genere per il 3% del suo fatturato, il Mit di Boston per l'80%. In più, proponiamo l'introduzione del credito d'imposta del 50% per le commesse private all'università».
Va bene l'uso diverso dei finanziamenti. Resta il problema di come funzionano gli atenei italiani.
«Deve cambiare la governance. Le università che hanno registrato i maggiori avanzamenti nelle classifiche internazionali sono quelle che hanno cambiato la governance e non sono più basate su logiche assembleari. Non chiediamo di privatizzarle, ma devono diventare intraprese culturali, rette da un consiglio di amministrazione. I rettori devono diventare figure professionali sofisticatissime capaci di guidarle nella competizione, con l'obiettivo di attrarre gli studenti e i docenti migliori, di avere accesso ai fondi per la ricerca, di produrre brevetti e licenze e anche premi Nobel, di creare spin-off che sappiano stare sul mercato».
Ma le università non si autoriformano.
«La riforma della governance non può essere lasciata a loro. Deve essere il risultato di scelte politiche coraggiose».
Lei è consigliere dell'Iit di Genova, il Mit italiano. Come sta andando?
«Abbiamo iniziato da un anno, ci siamo dati una governance di tipo anglosassone e stiamo già ottenendo i primi risultati. Siamo riusciti ad attrarre talenti di livello internazionale per i nostri laboratori. Quello che ci hanno chiesto, quando sono venuti, sono state rassicurazioni sulla continuità, anche in caso di cambio di governo. Se questa continuità venisse meno, come mi pare di capire qualcuno vorrebbe, sarebbe la chiusura definitiva della possibilità di portare eccellenze in Italia, un crollo di credibilità della classe dirigente di fronte a tutta la comunità internazionale. Sarebbe un delitto».