Corriere: Se linsegnamento a cotratto diventa un tipo di volontariato
Il costo zero manifesta una dequalificazio­ne dell’insegnamento (come cosa che non vale nulla) ed evidenza che ormai la didattica è riservata a chi ha altri redditi, con buona pace per merito e ascensore sociale.
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Come ha sottolineato ieri nel suo intervento il professor Fran­cesco Giavazzi, c’è molto che gli avversari di una riforma universitaria non dicono. Una delle omissioni riguarda i «professo­ri a contratto», ruolo per il quale sono sta­to riconosciuto idoneo da alcuni atenei.
Oggi, il 30% (studio curato da De Masi) degli insegnamenti nelle università italia­ne, con punte anche del 50 per alcune lau­ree, è impartito da docenti a contratto. Mentre il docente di ruolo, che può scegliere tra tempo pieno e tempo par­ziale (quasi tutti optano per il tempo pieno, che corri­sponde a 120 o 180 ore all’an­no!), riceve uno stipendio va­riabile da poco più di 1.000 euro (ricercatore non confer­mato) a circa 5.000 al mese, i docenti a contratto (che svolgono insegnamenti per 20, 30, 40 o 60 ore più esami) ricevono compensi an­nui variabili da 300 a 4.000 euro. Quest’an­no, alcuni atenei hanno chiesto di tenere corsi a «prezzo simbolico» (un euro) o a titolo gratuito.
Se ne traggono alcune considerazioni. Il costo zero manifesta una dequalificazio­ne dell’insegnamento (come cosa che non vale nulla) ed evidenza che ormai la didattica è riservata a chi ha altri redditi, con buona pace per merito e ascensore sociale. L’insegnamento, specie a contrat­to, diventa espressione di un filantropico volontariato, nei casi migliori, o di un par­cheggio per portaborse e parenti, nei casi peggiori. Sempre meno il punto di incon­tro tra lavoro e ricerca. Per altro, che a pa­rità di prestazione si possa guadagnare ze­ro o migliaia di euro è un tradimento del rapporto economico tra lavoro ef­fettuato e salario.
Per evitare che, al pari dei finti concorsi, anche per i professori a contrat­to (un ruolo da difende­re) si sprofondi nei ricatti del baronismo e nella de­qualificazione, c’è una so­luzione: la riforma. Ovve­ro l’introduzione di un concorso naziona­le per titoli che identifichi tutti gli idonei tra i quali le università possono chiama­re, sia per contratti che per assunzioni. Ciò consentirebbe certezza qualitativa, co­stringerebbe i docenti di ruolo a lavorare in università e i Cda degli atenei ad assu­mersi la responsabilità di chi chiamano.
Pierluigi Panza