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Corriere: Università, la lunga estate dei test

«Va rivisto l’intero meccanismo, dalla formulazione delle domande all’erogazione dei questionari», ha detto il ministro Gelmini. Ma tutto è rinviato al prossimo anno

02/06/2009
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Corriere della sera

Le cifre I primi ad affrontare i quesiti a risposte fisse saranno i ragazzi della maturità nella loro terza prova

Le polemiche Ottanta domande alle quali rispondere in due ore. Gli studenti sono contrari e alcuni docenti sono d’accordo con loro. Sono l’ostacolo da superare per il numero chiuso Una «fabbrica» che produce 300 mila quiz all’anno

Ecco, ci siamo: la lunga estate dei test sta (di nuovo) per iniziare. Quiz a risposte multiple oppure singole, domande di logica e cultura ge­nerale, test selettivi o solo propedeutici. Si parte con la terza prova della maturità — quella pluridisciplinare, con quesiti stilati dai membri della commissione — e si finisce con i test di ingresso per il nu­mero chiuso alle università, vero e pro­prio scoglio su cui rischiano di infranger­si i sogni di moltissimi neo-diplomati.

I più temuti sono, ovviamente, quelli che non offrono vie d’uscita: o la va o la spacca, chi si ferma è perduto. Medicina e chirurgia, veterinaria, odontoiatria, scienze della formazione primaria e ar­chitettura, questi i principali corsi di lau­rea il cui accesso è definito dal «numero programmato» (cui possono aggiunger­si, secondo la legge 264 del 1999, quelli «di nuova istituzione o attivazione, su proposta delle università»). E ovviamen­te, i grandi atenei privati, dall’antesigna­na Bocconi alla Luiss. Per gli altri, resta — ed è sempre più diffusa, la Sapienza ad esempio l’ha appena confermata per tutti i suoi corsi — la possibilità di intro­durre delle verifiche «non selettive» (nel 2008-2009, stando a un’inchiesta del So­le- 24 Ore, vi hanno preso parte 110mila aspiranti matricole): l’accesso resta libe­ro, i candidati vengono comunque valu­tati in base a prove di cultura generale o sulle materie previste dai programmi. Prove definite, per tempi e modi, dal sin­golo ateneo; solo per ingegneria il coordi­namento è affidato, nella quasi totalità dei casi, al consorzio Cisia. Se non si pas­sa, le conseguenze variano: debiti forma­tivi, sbarramento agli esami, ripetizione del test. Nel caso della Scuola superiore per interpreti e traduttori di Trieste, boc­ciatura uguale impossibilità di iscriversi. Come nel numero chiuso «ufficiale».

Che resta, ad oggi, il più contestato nel grande gruppo dei test pre-universi­tari. Soprattutto dagli studenti, che non hanno ancora dimenticato — ricorda Fa­bio Ingrosso, dell’Unione degli universi­tari — «le domande di cultura generale su Pippo Baudo o il maxi ricorso del 2007, con i quesiti sbagliati di Medici­na... ». Ma non sono solo le presunte vitti­me ad assumere una posizione critica verso il test. Che è composto, per le pro­ve stabilite a livello nazionale (con date prefissate), da 80 domande a risposta multipla, per 2 ore di tempo. Dalla logica alla matematica, passando, a seconda dei casi, per storia, chimica, letteratura. E cultura generale. Può dunque capitare di dover indicare il sinonimo di quietanza, o chi tra Adelchi, Don Abbondio e Fra Cri­stoforo sia il «vaso di terra cotta» di man­zoniana memoria. E ancora, l’anno del primo atterraggio sulla Luna o il nome del Paese in cui fu clonata la pecora Dol­ly. L’unica risposta giusta si cela tra le 5 disponibili. All’Udu la formula non pia­ce, «un test a crocette di qualche ora non può giudicare il valore di una persona».

Una linea su cui, in parte, concorda Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa: realtà quanto mai selettiva, «ma senza test di tipo psi­coattitudinale ». Settis ricorda un pamph­let di Hans Magnus Enzensberger, Nel la­birinto dell’intelligenza (Einaudi), «in cui si sottolinea come questi test siano spesso sganciati da una valutazione rea­le. È chiaro, il sistema a risposte chiuse fa risparmiare tempo; ma se per un esa­me di storia dell’arte ci si prepara, per uno che spazia dalla biologia alla costitu­zione americana non si può. I ragazzi si demotivano, gli esaminatori si derespon­sabilizzano ». Una perplessità in parte condivisa, a quanto pare, dallo stesso di­castero di Viale Trastevere. A settembre, Mariastella Gelmini aveva sottolineato che «i test attuali valutano le nozioni, e poco le capacità di ragionamento». Anco­ra: «Va rivisto l’intero meccanismo, dalla formulazione delle domande all’erogazio­ne dei questionari». Oggi, dal ministero fanno sapere che «si sta lavorando per un cambiamento, ma la procedura è com­plessa e per quest’anno non c’erano i tempi». La commissione, comunque, esi­ste già, «soprattutto per i test di Medici­na ». Quelli che più guai avevano causato nell’«anno orribile» 2007-2008.

«Ma da allora si è lavorato molto sulle 'parti critiche', compreso il ruolo degli atenei nel visionare lo svolgimento — re­plica Marco Lanzarini, direttore generale del Cineca —. E l’anno scorso è andata bene: nessuna banda a delinquere che or­ganizzasse fughe di notizie in giro per l’Italia... In molti ormai usano società esterne per la sorveglianza, e strumenti per controllare cosa viene portato in au­la ». Lanzarini sa di cosa sta parlando: al Cineca, consorzio senza scopo di lucro, spetta la gestione della «macchina» dei test nazionali. «Vado personalmente al Miur a ritirare i plichi elaborati dalla commissione centrale. Ne prepariamo 200-300mila, con un meccanismo di per­mutazioni per cui di fatto non esistono due prove con lo stesso ordine di doman­de e risposte; ce ne ritornano tra i 70 e i 100mila per essere valutati. Il costo? Due­centomila euro all’anno».

Per Lanzarini, il quiz a risposte multi­ple è «un male inevitabile, il modo meno imperfetto per saggiare le nozioni»; e «i ricorsi al Tar ci sono sempre, all’ingresso delle prove ci sono schiere di avvocati che distribuiscono biglietti da visita...». «È vero, i test pretendono di sintetizzare una complessità che avrebbe bisogno di ben altri esami», commenta Andrea Cam­melli, direttore di AlmaLaurea. «Ma mol­te ricerche dimostrano come esista una correlazione diretta tra risultati dei test ed esito degli studi. Queste prove consen­tono ai ragazzi di individuare il terreno su cui le loro capacità riescono ad emer­gere; e se penso che in Italia un immatri­colato su 5 si perde nei primi 12 mesi di studio...». Piuttosto ci vorrebbe, sostiene Cammelli, «una maggiore preparazione al sistema dei test, a partire dalle superio­ri ». Ma numero chiuso non significa ne­cessariamente accesso programmato: «Se hai una nave che tiene 250 persone non ne puoi imbarcare di più, ma se sul­la banchina hai molta gente che vuole partire... I nostri laureati sono la metà della media dei Paesi Ocse. Quindi: sì al numero chiuso, ma se c’è una domanda, aumentiamo i poli di formazione. Il go­verno ha messo a disposizione fondi per l’acquisto di biciclette, e poi non ce n’è per ampliare l’offerta universitaria?».

Gabriela Jacomella

gjacomella@corriere.it