Corriere: Università, la lunga estate dei test
«Va rivisto l’intero meccanismo, dalla formulazione delle domande all’erogazione dei questionari», ha detto il ministro Gelmini. Ma tutto è rinviato al prossimo anno
Le cifre I primi ad affrontare i quesiti a risposte fisse saranno i ragazzi della maturità nella loro terza prova
Le polemiche Ottanta domande alle quali rispondere in due ore. Gli studenti sono contrari e alcuni docenti sono d’accordo con loro. Sono l’ostacolo da superare per il numero chiuso Una «fabbrica» che produce 300 mila quiz all’anno
Ecco, ci siamo: la lunga estate dei test sta (di nuovo) per iniziare. Quiz a risposte multiple oppure singole, domande di logica e cultura generale, test selettivi o solo propedeutici. Si parte con la terza prova della maturità — quella pluridisciplinare, con quesiti stilati dai membri della commissione — e si finisce con i test di ingresso per il numero chiuso alle università, vero e proprio scoglio su cui rischiano di infrangersi i sogni di moltissimi neo-diplomati.
I più temuti sono, ovviamente, quelli che non offrono vie d’uscita: o la va o la spacca, chi si ferma è perduto. Medicina e chirurgia, veterinaria, odontoiatria, scienze della formazione primaria e architettura, questi i principali corsi di laurea il cui accesso è definito dal «numero programmato» (cui possono aggiungersi, secondo la legge 264 del 1999, quelli «di nuova istituzione o attivazione, su proposta delle università»). E ovviamente, i grandi atenei privati, dall’antesignana Bocconi alla Luiss. Per gli altri, resta — ed è sempre più diffusa, la Sapienza ad esempio l’ha appena confermata per tutti i suoi corsi — la possibilità di introdurre delle verifiche «non selettive» (nel 2008-2009, stando a un’inchiesta del Sole- 24 Ore, vi hanno preso parte 110mila aspiranti matricole): l’accesso resta libero, i candidati vengono comunque valutati in base a prove di cultura generale o sulle materie previste dai programmi. Prove definite, per tempi e modi, dal singolo ateneo; solo per ingegneria il coordinamento è affidato, nella quasi totalità dei casi, al consorzio Cisia. Se non si passa, le conseguenze variano: debiti formativi, sbarramento agli esami, ripetizione del test. Nel caso della Scuola superiore per interpreti e traduttori di Trieste, bocciatura uguale impossibilità di iscriversi. Come nel numero chiuso «ufficiale».
Che resta, ad oggi, il più contestato nel grande gruppo dei test pre-universitari. Soprattutto dagli studenti, che non hanno ancora dimenticato — ricorda Fabio Ingrosso, dell’Unione degli universitari — «le domande di cultura generale su Pippo Baudo o il maxi ricorso del 2007, con i quesiti sbagliati di Medicina... ». Ma non sono solo le presunte vittime ad assumere una posizione critica verso il test. Che è composto, per le prove stabilite a livello nazionale (con date prefissate), da 80 domande a risposta multipla, per 2 ore di tempo. Dalla logica alla matematica, passando, a seconda dei casi, per storia, chimica, letteratura. E cultura generale. Può dunque capitare di dover indicare il sinonimo di quietanza, o chi tra Adelchi, Don Abbondio e Fra Cristoforo sia il «vaso di terra cotta» di manzoniana memoria. E ancora, l’anno del primo atterraggio sulla Luna o il nome del Paese in cui fu clonata la pecora Dolly. L’unica risposta giusta si cela tra le 5 disponibili. All’Udu la formula non piace, «un test a crocette di qualche ora non può giudicare il valore di una persona».
Una linea su cui, in parte, concorda Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa: realtà quanto mai selettiva, «ma senza test di tipo psicoattitudinale ». Settis ricorda un pamphlet di Hans Magnus Enzensberger, Nel labirinto dell’intelligenza (Einaudi), «in cui si sottolinea come questi test siano spesso sganciati da una valutazione reale. È chiaro, il sistema a risposte chiuse fa risparmiare tempo; ma se per un esame di storia dell’arte ci si prepara, per uno che spazia dalla biologia alla costituzione americana non si può. I ragazzi si demotivano, gli esaminatori si deresponsabilizzano ». Una perplessità in parte condivisa, a quanto pare, dallo stesso dicastero di Viale Trastevere. A settembre, Mariastella Gelmini aveva sottolineato che «i test attuali valutano le nozioni, e poco le capacità di ragionamento». Ancora: «Va rivisto l’intero meccanismo, dalla formulazione delle domande all’erogazione dei questionari». Oggi, dal ministero fanno sapere che «si sta lavorando per un cambiamento, ma la procedura è complessa e per quest’anno non c’erano i tempi». La commissione, comunque, esiste già, «soprattutto per i test di Medicina ». Quelli che più guai avevano causato nell’«anno orribile» 2007-2008.
«Ma da allora si è lavorato molto sulle 'parti critiche', compreso il ruolo degli atenei nel visionare lo svolgimento — replica Marco Lanzarini, direttore generale del Cineca —. E l’anno scorso è andata bene: nessuna banda a delinquere che organizzasse fughe di notizie in giro per l’Italia... In molti ormai usano società esterne per la sorveglianza, e strumenti per controllare cosa viene portato in aula ». Lanzarini sa di cosa sta parlando: al Cineca, consorzio senza scopo di lucro, spetta la gestione della «macchina» dei test nazionali. «Vado personalmente al Miur a ritirare i plichi elaborati dalla commissione centrale. Ne prepariamo 200-300mila, con un meccanismo di permutazioni per cui di fatto non esistono due prove con lo stesso ordine di domande e risposte; ce ne ritornano tra i 70 e i 100mila per essere valutati. Il costo? Duecentomila euro all’anno».
Per Lanzarini, il quiz a risposte multiple è «un male inevitabile, il modo meno imperfetto per saggiare le nozioni»; e «i ricorsi al Tar ci sono sempre, all’ingresso delle prove ci sono schiere di avvocati che distribuiscono biglietti da visita...». «È vero, i test pretendono di sintetizzare una complessità che avrebbe bisogno di ben altri esami», commenta Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea. «Ma molte ricerche dimostrano come esista una correlazione diretta tra risultati dei test ed esito degli studi. Queste prove consentono ai ragazzi di individuare il terreno su cui le loro capacità riescono ad emergere; e se penso che in Italia un immatricolato su 5 si perde nei primi 12 mesi di studio...». Piuttosto ci vorrebbe, sostiene Cammelli, «una maggiore preparazione al sistema dei test, a partire dalle superiori ». Ma numero chiuso non significa necessariamente accesso programmato: «Se hai una nave che tiene 250 persone non ne puoi imbarcare di più, ma se sulla banchina hai molta gente che vuole partire... I nostri laureati sono la metà della media dei Paesi Ocse. Quindi: sì al numero chiuso, ma se c’è una domanda, aumentiamo i poli di formazione. Il governo ha messo a disposizione fondi per l’acquisto di biciclette, e poi non ce n’è per ampliare l’offerta universitaria?».
Gabriela Jacomella
gjacomella@corriere.it