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Così la bolla informativa annulla la conoscenza

L’allarme arriva da una ricerca curata da due professori dell’Università di Cardiff. Il numero delle pubblicazioni, è ormai fuori controllo Non basta una vita per aggiornarsi

01/06/2013
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la Repubblica

MASSIMIANO BUCCHI

Il dottor Jones si occupa di diagnostica cardiologica per immagini, ha appena preso servizio ed è pieno di buone intenzioni.
Vuole informarsi sugli studi significativi ed essere aggiornato sui più recenti sviluppi del settore. Si mette subito al lavoro per consultare la letteratura rilevante. Dopo qualche giorno passato sulle principali riviste e database, lo assale un dubbio. Il dottor Jones fa qualche semplice calcolo, e il dubbio si trasforma in sconforto. Anche dedicando alla lettura otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana, per cinquanta settimane all’anno — il che fa la bellezza di diecimila articoli letti ogni anno — gli ci vorrebbero più di undici anni a metabolizzare la letteratura rilevante. Nel frattempo però sarebbero stati pubblicati altri ottantamila studi, e per consultare questi ultimi il dottor Jones dovrebbe mettere in conto altri otto anni (a tempo pieno!). Di questo passo, prima di poter iniziare a leggere un articolo appena uscito, dovrebbe dedicare oltre quarant’anni a consultare la letteratura esistente, terminando appena in tempo per andare in pensione.
Il dottor Jones è ormai in preda alle vertigini e inizia a sentirsi come quel personaggio di Massimo Troisi che aveva rinunciato a imparare a leggere «perché io sono uno a leggere, e loro intanto sono milioni a scrivere, non li raggiungerò mai». Se anche riuscisse in qualche modo a completare questa titanica impresa, Jones ha calcolato che in seguito, solo per tenersi aggiornato sui nuovi risultati pubblicati dovrebbe leggere almeno trenta studi a settimana. E, è bene ripeterlo, stiamo parlando di un settore estremamente specifico. I calcoli li hanno fatti un professore di cardiologia e uno di statistica medica dell’Università di Cardiff e il titolo del loro studio, che ne riassume la conclusione categorica, ha il tono sinistro di un’opera di Damien Hirst:
Sull’impossibilità di essere esperto.
Ma il discorso non sarebbe molto diverso in altri settori. Il problema, infatti, è generale e riguarda la continua crescita del numero di pubblicazioni scientifiche. Secondo la International Association of Scientific, Technical and Medical Publishers, attualmente sono attive nel mondo 28.100 riviste scientifiche specializzate sottoposte a peer review (cioè a una selezione dei contenuti da parte degli stessi studiosi), per un totale di circa un milione e ottocentomila articoli pubblicati ogni anno. Una cifra astronomica e che continua ad aumentare del 3 per cento ogni anno. Un vero e proprio sovraccarico informativo, o come si usa dire oggi, una “infobesity”, obesità informativa che sta schiacciando sotto il proprio peso il dottor Jones e i suoi colleghi (e se volete davvero farvi girare la testa, cercate su Google “information overload” e scoprirete che c’è un sovraccarico informativo sul sovraccarico informativo: oltre ventuno milioni di risultati).
Che cosa significa dunque essere un “esperto” in questo scenario magmatico? E soprattutto, ha ancora senso parlare di esperti? C’è davvero una differenza significativa — si chiedono provocatoriamente i due autori nello studio — tra ignorare il 100 per cento della letteratura in un settore specifico e ignorarne “solo” il 98 per cento, come sembra essere il destino del dottor Jones e di buona parte dei suoi colleghi?
D’accordo, si dirà: non tutte le riviste e gli studi pubblicati hanno la stessa rilevanza, e non tutti meritano la stessa attenzione da parte del dottor Jones. Ma in questa proliferazione di contenuti è sempre più difficile individuare quelli più importanti, e questa stessa scrematura richiede tempo. Per di più, è evidentemente irrealistica l’aspettativa che il dottor Jones legga riviste scientifiche dalla mattina alla sera: il suo ruolo di esperto richiede anche che visiti pazienti, che parli con i colleghi, che scriva rapporti e naturalmente che produca le proprie pubblicazioni, che andranno ad alimentare il sovraccarico di cui sopra.
Le conseguenze di questa proliferazione informativa sono profonde e ci riguardano tutti. La ricerca dell’Università di Cardiff stima che al ritmo tutt’altro che disprezzabile di un articolo letto al giorno (ovvero 250 articoli all’anno), la probabilità che il dottor Jones e un altro suo collega leggano lo stesso studio nello stesso anno è di 1 a 79. In altre parole, è sempre più difficile per gli esperti, anche in un settore specifico, trovare un terreno stabile, comune e condiviso di risultati; il risultato è una crescente frammentazione e divergenze che si manifestano sempre più frequentemente anche in ambito pubblico.
Diventa infatti sempre più agevole, pescando in questo inesausto e sempre più articolato serbatoio informativo, sfidare e mettere in discussione pareri e competenze espresse dagli esperti su questioni di rilevanza pubblica. Questo contribuisce ad alimentare quella “crisi degli esperti” che si esprime ormai a vari livelli e in molteplici forme: dalla critica alle previsioni meteorologiche da parte di esponenti del mondo politico e imprenditoriale, al complesso intreccio tra competenza e responsabilità, fino al recente “Excelgate” che su blog e siti web di tutto il mondo ha messo in discussione un influente studio sul rapporto tra indebitamento e crescita economica, attribuendogli un macroscopico errore di calcolo.
La portata del fenomeno appare tale da rendere difficile indicare una via d’uscita. Gli autori dello studio gallese si interrogano su come ridurre la quantità ed elevare la qualità delle pubblicazioni specialistiche, ipotizzando ad esempio nuove forme di diffusione dei risultati aperte e collaborative (“wiki”). Ma finché le carriere in questi campi saranno legate alle pubblicazioni, sarà difficile frenare questa “bolla informativa”. E poi, insomma, si tratta solo del parere di due esperti tra i tanti, anzi tantissimi. Il dottor Jones (almeno questo) lo sa bene.