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Così sprechiamo il talento: 12 timbri per un tirocinio. Con leggi semplici e sindacati aperti i tedeschi sono produttivi

La risposta non è semplice e non è univoca, ma i risultati dell’indagine Ocse sulla «competenza fondamentale» della popolazione adulta sono impietosi. E forse possiamo rischiare una semplificazione: studiamo e lavoriamo male

10/10/2013
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Corriere della sera

Beppe Severgnini

Sgobbiamo più dei tedeschi, ma combiniamo di meno. In media noi lavoriamo 1.750 ore l’anno, loro soltanto 1.413; ma la produttività oraria, in Germania, è cresciuta del 15 cento dal 2000, mentre la nostra è rimasta uguale. Studiamo quanto i francesi, ma loro imparano meglio. Il 44 per cento degli italiani non ha un diploma di scuola secondaria superiore, contro il 28 della Francia, il 24 del Regno Unito e il 13 della solita Germania.
In sostanza: nell’istruzione come nella produzione, i nostri risultati non corrispondono allo sforzo. Domanda: perché?
La risposta non è semplice e non è univoca, ma i risultati dell’indagine Ocse sulla «competenza fondamentale» della popolazione adulta sono impietosi. E forse possiamo rischiare una semplificazione: studiamo e lavoriamo male. O, almeno, non abbastanza bene. Il combinato disposto di procedure complesse, norme variabili e comportamenti opachi ci obbliga a sprecare risorse ed energie.
Dovremmo dirlo, ai molti stranieri innamorati di vecchi stereotipi italiani: altro che dolce far niente. Amaro far poco, semmai.
Non è soltanto una questione di denari. Andrea Ichino, in questa pagina, sottolinea un aspetto importante: nella scuola non spendiamo abbastanza, forse; ma certamente spendiamo male. Perfino dopo i tagli gelminiani, infatti, siamo in linea con gli altri Paesi Ocse: come spesa per studente, numero di insegnanti, ore di insegnamento. Ma nell’anno scolastico 2011/2012 gli studenti «a rischio di abbandono» nelle scuole superiori risultavano 31.397 (1,2% degli iscritti). E i giovani 18-24enni che hanno abbandonato prematuramente gli studi o qualsiasi altro tipo di formazione? Nella graduatoria dei ventotto Paesi Ue, l’Italia occupa la quart’ultima posizione, dopo il Portogallo.
Non è solo un dispiacere: è un fallimento, meritevole di qualche riflessione.
Se i risultati della indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competence) oggi ci penalizzano, la nostra disorganizzazione rischia di condannarci all’insuccesso anche in futuro. Il nuovo anno scolastico è iniziato con centinaia di istituti senza dirigenti: dei 2.386 posti messi a concorso dal Ministero, ad oggi sono stati assunti solo 1.402 presidi. Quasi mille scuole hanno iniziato l’anno scolastico senza capo d’istituto; altre 600 sono state affidate a reggenze. Come si studierà, in quelle condizioni?
E se ci spostiamo all’università, siamo sicuri che vicende come quelle indagate dalla procura di Bari siano isolate? Un concorso accademico poco trasparente ha conseguenze sull’efficienza e sullo spirito del corpo docente. Se un giovane assistente si convince che, per salire in cattedra, conta di più il servilismo della didattica, quanto sarà disponibile per gli studenti? Quante ore dedicherà ad ascoltarne i dubbi, a rispondere alle mail, a seguire le tesi?
Torniamo al lavoro. Certo il successo della Germania non si spiega soltanto con l’armonia sul posto di lavoro. Come ha scritto Maurizio Ferrera, «la moneta ha portato all’economia tedesca un vantaggio enorme, penalizzando quasi simmetricamente le economie più deboli». Ma non c’è dubbio: la ragionevolezza sindacale, la semplicità normativa e la coesione sociale hanno aiutato i tedeschi; la mancanza di questi elementi ha rallentato noi. Se sono necessari dodici (dodici!) passaggi burocratici per assumere un apprendista, e un tirocinante è obbligato a prestare servizio in un luogo fisso, indicando meticolosi orari di lavoro e pagando fior di imposte sul reddito, come possiamo pensare di ripartire?
«Il mondo moderno — ha detto il ministro britannico per l’università e la scienza, David Willetts, in visita in Italia — è ormai una sfida continua tra esploratori e paurosi, insorti e insediati, outsider e insider». Se stiamo sempre dalla parte di questi ultimi, come possiamo pensare di vincere la partita?