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dsonline: Una finanziaria da migliorare

Prime osservazioni di Walter Tocci sulla legge finanziaria all’esame della Camera dei Deputati

09/10/2006
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È iniziata la svolta nella politica per la ricerca e l’università. La finanziaria contiene quattro novità preziose: si riaprono le porte ai giovani con un piano straordinario di assunzione dei ricercatori, viene istituita una struttura di valutazione al fine di premiare il merito; sono raddoppiati i fondi per i bandi pubblici della ricerca; si avvia un programma ambizioso ( Industria 2015) per il decollo della ricerca applicata. Non erano scontati questi risultati. Averli ottenuti è merito dell’impegno di Mussi e delle iniziative di Bersani.

Nella discussione parlamentare questi buoni risultati possono essere ulteriormente migliorati, nel modo seguente:

1) Per riaprire davvero le porte ai giovani occorrerà aumentare i fondi disponibili (quest’anno solo 20 milioni) e soprattutto innovare le procedure di selezione, rigorosamente basate sul merito, secondo i più avanzati modelli internazionali. Dovrà essere il ricercatore a scegliere l’ente o l’università, dove cioè gli verranno prospettati i programmi di ricerca più interessanti, e insieme all’assunzione riceverà un fondo per organizzare in piena autonomia la propria attività. Va quindi modificato l’attuale articolo 70 che incredibilmente torna al passato, applicando anche ai ricercatori la procedura di idoneità introdotta dalla legge Moratti per i professori (e sovrapponendosi all’attuale procedura di concorsi locali, in un pasticcio incomprensibile). Nello stesso tempo si dovrà porrà fine alla mortificazione dei ricercatori universitari che il precedente governo voleva rendere invisibili ponendo il ruolo ad esaurimento. È giunto il momento di sciogliere questa tipica ipocrisia italica, per la quale quei ventimila ricercatori non si possono chiamare professori, pur insegnando a tempo o pieno ed essendo chiaro a tutti che senza di loro la didattica crollerebbe. Si riconosca, quindi, la terza fascia di professore a tutti i ricercatori che insegnano.

2) Se i risultati della valutazione peseranno nell’attribuzione dei finanziamenti la struttura preposta deve essere indipendente non solo dall’università ma anche dalle burocrazie ministeriali. Per garantire la libertà da qualsiasi condizionamento serve una vera Authority, come proposto dal disegno di legge presentato dai DS in campagna elettorale. Nell’ordinamento italiano, infatti, l’Agenzia costituisce una diretta emanazione ministeriale e quindi potrebbe essere inadeguata ad assicurare la necessaria terzietà.

3) Le procedure dei bandi di ricerca devono essere molto rigorose, basate su referee internazionali, e indirizzate alla ricerca libera di Enti pubblici e università, eliminando lacci e lacciuoli posti dal precedente governo. E’ positiva l’unificazione dei fondi, in modo che enti e università possano concorrere insieme senza inutili steccati, ma l’articolo 106 che introduce il First non accenna neppure alla ricerca libera e anzi introduce un concerto con il Ministero dell’Economia che prima non esisteva per i Prin e i Firb. Nella norma o nei regolamenti attuativi si dovrà quindi introdurre una quota riservata alla ricerca libera e di base per evitare passi indietro.

4) Le politiche per l’innovazione industriale corrono il rischio di ridursi alle solite incentivazioni di dubbia efficacia se non sono sostenute dall’azione strutturante degli Enti pubblici. È uno spreco pagare gli stipendi dei ricercatori di Enea e Asi senza utilizzarli a pieno per il raggiungimento di grandi obiettivi nazionali. L’Asi potrebbe essere il play-maker di una frontiera tecnologica come quella spaziale che è molto ricca di ricadute industriali. L’Enea potrebbe diventare il Fraunhofer italiano per lo sviluppo della ricerca applicata. Questi strumenti vanno collocati degnamente nel programma Industria 2015.

Ci sono poi anche i punti dolenti della finanziaria. Mancano le risorse per assegnare le borse di studio a tutti i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” (articolo 44 della Costituzione) e inadeguatisono i finanziamentiper Enti e Università, e se ne è lamentato onestamente anche il ministro Mussi. Si dirà, dobbiamo stringere le cinghia a causa del debito pubblico. Purtroppo non è così. Si potevano trovare risorse aggiuntive andando a tagliare le spese folli del ministro Tremonti, il quale negli anni passati ha creato ben tre nuove strutture per la ricerca, due Agenzie (una a Milano e l’altra in Sicilia) e un nuovo istituto, l’IIT. Tali strutture consumano circa 400 milioni di euro (l’incremento di spesa più alto in questi anni) e non sono sottoposte ad alcuna valutazione. Anzi, l’IIT ottiene nuovi fondi pur non avendo ancora speso quelli incassati negli anni precedenti e distribuisce risorse ad altri centri senza ricorrere ai normali bandi pubblici. Non a caso è presieduto dal direttore del ministero dell’Economia il quale usa la sciabola per tagliare enti e università, ma non fa mancare nulla alle strutture sotto il suo diretto controllo (l’ennesimo caso di un arbitro che fa il giocatore, ormai diventato il vero genius loci italiano).

Si sono creati due sistemi della Ricerca, da un lato quello del Miur, al quale vengono applicate i tagli della finanziaria, e dall’altro quello sotto il controllo del ministero dell’Economia che vive nel paese dei balocchi. Ci possiamo permettere questa duplicazione? Se non siamo in grado di sostenere le strutture pubbliche esistenti perché mai continuiamo a crearne di nuove? Si poteva risparmiare sulle nuove agenzie e liberare risorse per i giovani e la ricerca pubblica di qualità. Da mesi segnalo con insistenza questo possibile risparmio, ma in via XX Settembre i sedicenti moralizzatori della spesa pubblica fanno finta di non sentirci da questo orecchio. Mi sarei aspettato che il governo di centrosinistra mettesse fine agli sprechi tremontiani. E invece non è accaduto, dovremo farlo in Parlamento.

Tutta la manovra è impregnata dalla vecchia cultura burocratica dei ministeri, che è ormai il vero ostacolo per una seria azione riformatrice. Non si è capito il senso profondo della istituzione di una struttura preposta alla valutazione del sistema università e ricerca. Essa implica un ribaltamento radicale del vecchio metodo di governo del sistema. Se puntiamo davvero sulla valutazione, assegnando i fondi alle strutture più meritevoli, gradualmente si deve avviare la cancellazione di tutte le norme inutili. Si deve attuare una vera rivoluzione copernicana, passando alla verifica dei risultati e cancellando di conseguenza i controlli dei procedimenti. Le due logiche non possono sovrapporsi, altrimenti si crea un mostro, si aumenta l’inefficienza e il sistema diventa ancora più ancora ingovernabile. Se l’Autorità della valutazione deve aggiungersi al vecchio modello di controllo ministeriale allora stiamo creando una nuova burocrazia di cui proprio non si sente il bisogno.

Sono in vigore circa 700 leggi nel nostro settore. Solo alcuni esperti legulei, veri e propri sacerdoti della norma, si muovono con destrezza in tale giungla, per la gente normale tutto ciò è solo fonte di inefficienza e di distrazione dallo studio e dalla didattica. Una volta scelto il principio di valutazione si dovrebbe cancellare la gran parte di quelle norme, elaborando un testo unico per l’università e la ricerca con pochissimi articoli strettamente necessari.

E invece, non solo la finanziaria non cancella alcunché, ma provoca un’ulteriore alluvione normativa. Ci sono ben 14 commi che spiegano come si deve fare il bilancio dell’ateneo, un vero e proprio accanimento terapeutico da parte delle burocrazie ministeriali, le quali ormai non si rendono più conto neppure di quello che scrivono, prese come sono da un delirio di controllo in molti casi ai limiti del ridicolo.

Mi domando, ad esempio, che senso abbia aumentare di 100 milioni il fondo per le università e toglierne 200 con il taglio delle spese intermedie? Oltre alla beffa di un saldo negativo, le università dovranno riscrivere i bilanci secondo quei vincoli e spedirli al ministero che li controllerà e nasceranno certamente contenziosi interpretativi, con carte, timbri e protocolli a pieni giri, ma senza alcuna utilità per la cosa pubblica. Se questa era l’intenzione bastava dire il fondo è tagliato di 100 milioni, almeno si risparmiava in burocrazia.

Mi domando che senso abbia sbloccare le assunzioni (solo dal 2008) e poi inserire una serie complicatissima di condizioni sui bilanci che devono rispettare una certa percentuale delle entrate e poi del turnover e quant’altro. Ciò vale però fino a un certo punto perché poi ci sono le assunzioni straordinarie. Siamo alla schizofrenia legislativa. Tutto questo apparato normativo è perfettamente inutile e può essere semplicemente cancellato se entriamo rigorosamente nella logica della valutazione. Ciascun ente e università assuma come meglio crede, purché sia chiaro che i finanziamenti diminuiranno se i risultati non saranno positivi.

Mi domando, inoltre, perché si possono creare nuove sedi universitarie distaccate solo se c’è il supporto degli enti locali interessati. Se il comune di Reggio Calabria volesse sostenere la fantomatica università Ranieri accetteremmo a cuor leggero che quegli studenti ricevano un titolo di studio senza alcuna garanzia di serietà? Per impedire il proliferare di nuove sedi universitarie non c’è bisogno di inventare altre norme, anche in questo caso la strada più semplice è la valutazione dei progetti di ricerca e di didattica e il loro puntuale rispetto.

Questa enfasi burocratica scaturisce dalle incapacità del ministero dell’Economia di dotarsi di moderni criteri di controllo di qualità della spesa pubblica. Fanno pagare alla pubblica amministrazione la loro inefficacia e riescono pure ad ammantarla con la retorica del rigore. Come correggere quindi la manovra? Se nel decreto collegato si compie la scelta decisiva dell’Autorità di valutazione, la legge finanziaria dovrebbe coglierne le conseguenze, cancellando norme invece di scriverne di nuove. Gli emendamenti a questa parte della proposta governativa devono essere, a mio avviso, di carattere soppressivo. Dobbiamo fare un discorso chiaro alle università e agli enti: esercitate fino in fondo la vostra autonomia, senza alcuna bardatura, ma sappiate che dal prossimo anno neppure un euro vi sarà assegnato senza la dimostrazione di aver raggiunto buoni risultati. Punto. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Liberare la scienza dalla burocrazia è anche il modo migliore per rilanciare gli enti di ricerca. Ci sono molte questioni da affrontare con urgenza: rilanciare il Cnr come il perno della ricerca pubblica, ricostituire l’Infm, salvare l’esperienza dell’Inoa, fermare il delirio centralistico dell’Inaf ecc.

Bisognerà dare piena autonomia statuaria agli enti: siano i ricercatori a decidere come si devono organizzare e quali obiettivi perseguire. Meglio di loro non lo sa nessuno. Non ci interessa mettere a capo degli enti gente di partito. Vogliamo dare voce ai ricercatori anche nella scelta di presidenti. L’autorità di un presidente non scaturisce della nomina politica ma dall’autorevolezza scientifica. Quando Pistella fu posto a capo del CNR le riviste scientifiche denunciarono la totale mancanza di titoli scientifici. Se vogliamo recuperare il prestigio internazionale dobbiamo voltare pagina e chiamare scienziati di valore a dirigere la ricerca italiana.

Purtroppo, il ministero della Funzione Pubblica ha improvvisato una norma pasticciata (articolo 42) che ha dato la sensazione di voler andare in senso contrario, affidando la gestione transitoria agli attuali direttori degli Enti e quindi con un’esaltazione delle burocrazie interne. Bisognerà riscriverla chiarendo che a ricoprire le funzioni di direttore (chiamiamolo magari in un altro modo) saranno scienziati di valore, senza essere accompagnati da consigli di amministrazione lottizzati, ma solo da prestigiosi consigli scientifici.

Infine, un altro segnale sbagliato viene dal blocco delle retribuzioni di ricercatori e professori. Lo stesso ministero ha scritto una misura uguale per tutti, alla faccia della valorizzazione di meriti.

Ci sono professori e ricercatori appassionati, veri e propri eroi civili, che dalla mattina alla sera, con competenza e dedizione, danno anche l’anima per migliorare le strutture pubbliche. Poi ci sono, in netta minoranza, i fannulloni, quelli che non mettono piede all’università, quelli che sono andati in cattedra per nepotismo. Non distinguere tra comportamenti così diversi, trattare allo stesso modo vizi e virtù, è una cosa che mortifica le forze migliori, i riformatori più coraggiosi, la linfa vitale che tiene in piedi la ricerca e l’università. Inoltre, il taglio blocca anche lo stipendio dei ricercatori più giovani che sono già molto al di sotto dei valori stipendiali internazionali, con buona pace della fuga dei cervelli. Non si può continuare con le misure uguali per tutti. Si deve dare di più a chi merita e bloccare quelli che vanno bene. Premiare il merito è di sinistra abbiamo detto nel nostro programma. Se non ora, quando?

La norma blocca gli aumenti in attesa di una riforma successiva degli scatti stipendiali. Perché dovremmo rinviare la decisione? Il cambiamento si può fare subito trasferendo la massa salariale degli scatti automatici alla competenza delle singole università, le quali potrebbero assegnarli secondo criteri di merito, che si darebbero in piena autonomia, rompendo però il vecchio tabù che ha sempre impedito la valutazione individuale dei professori. Si obietta che tutto rimarrebbe così com’è. Anche questa obiezione non tiene conto della rivoluzione copernicana. Se infatti a monte funziona davvero la valutazione, la singola università per non perdere finanziamenti comincerà a premiare i migliori e si comincerà a spezzare quella malintesa solidarietà accademica per la quale il bravo professore è costretto a tollerare il suo collega non esemplare. La valutazione è una filiera e deve scorrere dall’alto in basso nel sistema senza alcuna zona franca.

Per tutte le ragioni suddette la legge finanziaria ha bisogno di una correzione profonda. Tale esigenza è venuta autorevolmente anche da Massimo D’Alema quando ha dichiarato: “Le risorse per l’innovazione, la ricerca: di tutto questo, è chiaro, non siamo pienamente soddisfatti”. E come potremmo dar torto al nostro vicepresidente del consiglio se l’aumento complessivo per la ricerca pubblica è di poco più di 300 milioni, circa lo 0.2% delle risorse che la stessa finanziaria destina allo sviluppo del paese (circa 18 miliardi). Non ci siamo proprio. Non si tratta qui di pietire qualche euro in più per l’università e la ricerca. Si tratta solo di uscire da un provincialismo e da una minorità che a questo punto è solo italiana. Tutti i paesi con alti tassi di crescita stanno puntando decisamente nell’investimento in conoscenza. Tutti gli esperti, gli organismi più autorevoli ripetono fino alla noia questo assunto e anche noi abbiamo ancora nelle nostre sezioni i materiali di propaganda che promettevano la svolta.

I nostri responsabili sembrano essere consapevoli, ma scarsamente conseguenti. L’altro giorno alla Camera il ministro Padoa Schioppa nel suo brillante intervento a difesa della finanziaria ha detto che il cuneo fiscale darà una boccata di ossigeno all’economia e dovremo utilizzare questo slancio per migliorare la produttività della nostra economia, che è un problema soprattutto tecnologico. Se questo non accade il soldi del cuneo fiscale, circa 9 miliardi, produrranno un effetto passeggero come la svalutazione della lira dei bei tempi andati e avremo bruciato al vento una bella somma, quasi la metà dell’intera manovra per la parte dello sviluppo.

E’ l’impostazione generale della politica economica del centrosinistra che deve cambiare, non solo qualche articolo della finanziaria relativo alla ricerca e all’università. Se non puntiamo decisamente e rapidamente sull’investimento in conoscenza sarà difficile risollevare l’Italia. Siamo ancora in tempo per farlo.

Per osservazioni e consigli scrivete a: tocci_w@camera.it