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Duemila euro per lavorare, il "pizzo di Stato" di cui nessuno parla

Un articolo di Daniele Tempera.

05/04/2024
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da Today.it

“Pizzo di Stato". Con queste parole, quasi un anno fa, la premier Giorgia Meloni descrisse i controlli fiscali nei confronti dei piccoli commercianti. Accortasi della gaffe, corresse il tiro appena qualche secondo dopo aggiungendo: "Più che lotta all’evasione fiscale, si chiama caccia al gettito". Una rettifica che però convinse in pochi. Perché è noto a tutti che, nel Paese in cui ogni anno vengono sottratti al fisco più di 83 miliardi di euro l'anno, qualcuno paga più degli altri. E anche un diritto può trasformarsi in privilegio.

Il prezzo della cattedra per i docenti italiani 

Ne sanno qualcosa i precari della scuola italiana. In otto anni il loro numero è raddoppiato: nel 2023 sono stati circa 235mila i docenti a tempo determinato impiegati nei nostri istituti scolastici. Senza di loro l'istruzione in Italia semplicemente non esisterebbe. In questi giorni molti di loro stanno affrontando un concorso straordinario bandito grazie ai fondi del Pnrr che dovrebbe portare a oltre 44mila stabilizzazioni. Sembra un buon passo in avanti, ma la beffa è dietro l'angolo. 

Sì, perché anche in caso di vittoria del concorso, si troverebbero tutti a dover sborsare fino a 2mila euro a università pubbliche o private. Perché? Andiamo con ordine. 

A rivoluzionare i metodi di reclutamento del personale docente è arrivato, appena due anni fa, l'ennesimo decreto (il 36/2022, poi trasformato in legge), fortemente voluto dall'ex ministro dell'Istruzione del governo Draghi, Patrizio Bianchi. Con la riforma chiunque voglia accedere all'abilitazione per l'insegnamento deve conseguire almeno 60 Cfu, parola ostica che sta per crediti formativi universitari. 

Come si traduce tutto questo? Per un neolaureato, o per chiunque voglia dedicarsi all'insegnamento da domani, in un anno di corsi e tirocini che possono essere erogati da università pubbliche e private. I corsi sono inerenti alla didattica, alla pedagogia e alla materia che si va a insegnare. Piccolo particolare non irrilevante: non sono gratis, ma possono arrivare a costare fino a 2500 euro.

Per avere un'idea della quantità di corsi abilitanti già attivi è sufficiente dare uno sguardo qui. La frequenza è in gran parte obbligatoria e molte sono le ore di tirocinio da svolgere in presenza. Al termine dell'anno c'è anche una "prova finale abilitante": si paga anche quella, ma "solo" 150 euro. 

Riassumendo: chiunque voglia diventare insegnante deve stanziare almeno 2650 euro e rinunciare a un anno di qualsiasi attività lavorativa (o fare comunque molti sacrifici) per ottenere un'abilitazione che gli permetterà di diventare supplente e (eventualmente) vincere un concorso. Il tutto per provare a conseguire uno stipendio che è ridicolo in confronto a quello dei suoi colleghi europei come abbiamo già sottolineato in un recente approfondimento

Ci sarebbe già da essere perplessi. Ma per gli oltre 300mila docenti precari italiani le cose vanno anche peggio. Qui entriamo, di diritto, nel registro del grottesco. 

"Ci mettono un pizzo da 2mila euro per poter lavorare"  

Sì, perché quella del 2022 non è certo l'unica riforma degli ultimi anni. Fino a oggi per accedere alle graduatorie o ai concorsi provinciali i docenti dovevano disporre di "soli" 24 Cfu. Erano crediti universitari conseguiti in area socio-psico-pedagogica erogati da università private e pubbliche. Il costo si aggirava generalmente sui 500 euro. 

Cosa ne sarà oggi di chi, magari da anni, lavora come supplente grazie a questa modalità? Semplice, dovrà sborsare dei soldi per conseguire altri 30 crediti formativi universitari (36 se non si hanno 3 anni di insegnamento) per ottenere l'abilitazione. Tutto ciò riguarda anche i futuri vincitori dell'attuale concorso straordinario riservato ai docenti precari. E la spesa da mettere in campo non è poca: si può arrivare fino a 2mila euro per ottenere i crediti necessari per l'agognato posto da insegnante a tempo indeterminato. 

Ci troviamo così davanti almeno a quattro paradossi. Riassumiamoli in breve. Il primo: anche se si vince un concorso pubblico si è poi costretti a sborsare migliaia di euro per lavorare. Il secondo: la formazione, normalmente a carico del datore di lavoro, viene invece pagata dal lavoratore. Il terzo: parliamo di insegnanti precari che da tempo lavorano nelle scuole italiane anche senza i fantomatici 60 Cfu. Nel rendere obbligatoria la formazione lo Stato è come se ammettesse di aver impiegato, per anni, personale non adeguatamente preparato in un settore chiave come quello della formazione. Il quarto, forse il più assurdo di tutti: se questa "formazione" si ritiene essenziale, perché non viene estesa anche ai docenti di ruolo che ne sono sprovvisti?

Domande che rimangono ovviamente senza risposta e che si traducono in rabbia. "Ci mettono un pizzo di 2000 euro, un tirocinio a c***o, un 24 cfu che forse perdiamo se non passiamo il concorso" scrive un utente in un gruppo dedicato al concorso straordinario. "La vera protesta sarebbe che nessuno partecipasse ai percorsi abilitanti, vedete come cambierebbero le cose" gli fa eco un altro partecipante. 

Altro che merito: così la selezione viene fatta anche in base al portafoglio

"Il paradosso è che così la selezione non verrà fatta solo sulla base del merito, che il ministero a parole si impegna a promuovere, ma anche sulla base delle possibilità economiche. La formazione è importante, ma deve essere gratuita - mi spiega Manuela Calza, della segreteria nazionale della Flc Cgil - Nel caso del percorso da 30 crediti, che vengono acquisiti tramite attività svolte on-line, il costo è poi francamente esorbitante rispetto alla reale offerta formativa". 

E il tutto rischia di trasformarsi in un discreto affare per le università, anche per quelle private, e in un bel salasso per le tasche di studenti e precari. Poniamo infatti il caso che io sia un neolaureato in lingue e letterature straniere e voglia abilitarmi nell'insegnamento di due lingue, come inglese e francese. Stando così le cose dapprima dovrò sborsare 2500 euro per il riconoscimento dei 60 Cfu su una prima materia, poi dovrò integrarli con altri 30. Costo totale? 4500 euro. Ovvero poco meno di tre mesi dello stipendio netto di un insegnante: sempre a patto che, al termine di questo percorso, si riesca a lavorare. 

In tutto ciò si attende il decreto per l'attivazione dei corsi che è in ritardo. Nel frattempo, come spesso accade, a prevalere è il caos e l'incertezza.

Ma tornando allora al famoso comizio della premier, di quasi un anno fa, viene spontaneo porsi una domanda: se la ricerca di gettito monetario (per evasione fiscale) a carico dei piccoli commercianti si chiama "pizzo di Stato", quella ai danni delle fasce più deboli della popolazione, come studenti e precari, costretti di fatto a pagarsi un percorso formativo per poter lavorare, come possiamo definirla? Preferiamo al momento non rispondere e notare che, nel Paese degli svariati condoni fiscali, a pagare sono sempre i soliti noti.