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Eravamo ricercatori ora siamo Bartleby lo scrivano

Proposte a costo zero per iniziare a liberare i laboratori dallamorsa della burocrazia

26/03/2014
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La Stampa

Martino Bolognesi - Università di Milano

Il successo di una ricerca scientifica in Italia si presenta come la punta di un iceberg: è la parte pubblicamente visibile, che svetta e che tutti acclamano. Sotto la superficie, però, una massa di dimensioni molto maggiori rende i movimenti della punta acclamata lenti e condizionati dalle correnti. La massa invisibile di cui tutti, tranne i ricercatori, ignorano l’esistenza è la burocrazia. Oggi la ricerca richiede un accesso rapido e agevole alla conoscenza globale, alla cooperazione internazionale, alle innovazioni tecnologiche, oltre che ai materiali di laboratorio e alla manutenzione di infrastrutture e strumentazione. La competizione internazionale richiede estrema agilità, mentre il fardello burocratico che i ricercatori italiani sono costretti ad affrontare rallenta e a volte soffoca la ricerca. Condiziona lo sviluppo di progetti ambiziosi da parte di chi vuole raccogliere sfide emettere in campo idee veramente competitive con quelle di colleghi stranieri, spesso meglio finanziati e anche equipaggiati. E’ stranoto che a causa della crisi economica le fonti di finanziamento alla ricerca italiana si sono ridotte. Se è vero che (soltanto) i migliori gruppi riusciranno a sopravvivere grazie alla capacità di attrarre fondi esterni, è altrettanto vero che nessun gruppo italiano sfugge alle tagliole della burocrazia. Infatti, la normativa che governa l’utilizzo dei fondi è cresciuta in complessità, in tempi recenti, al punto di mettere a rischio l’effettiva possibilità di utilizzarli. Facciamo un esempio. Per acquisire materiali di laboratorio, partecipare a congressi, pubblicare articoli scientifici - insomma, svolgere il lavoro per cui è stato formato - il ricercatore italiano deve corredare ogni suo acquisto con una lunga serie di documenti che scandiscono procedure dai nomi, peraltro inquietanti, quali «Durc», «Cig» e «Cup». Sono procedure nate con il fine - in sé corretto - di certificare la regolarità degli atti di fornitura, ma che finiscono per richiedere un notevole impegno gestionale (tempo, persone e, quindi, costi aggiuntivi), dilatano ogni percorso conoscitivo e, spesso, sono difficili da far comprendere, per esempio ai fornitori stranieri.Ma non basta. Da Udine a Catania le procedure d’acquisto adottate per la pubblica amministra-zione obbligano i ricercatori all’acquisto dei materiali attraverso il canale delle convenzioni Consip (il mercato elettronico), inteso come unica vetrina d’acquisto estesa a tutto il territorio nazionale. Avete letto bene: tutti, o quasi, gli ordinativi dimateriali di un dipartimento universitario devono passare per un singolo centro nazionale, nell’ottica di un atteso, benché discusso, ri-sparmio di scala per l’erario. È abbastanza facile immaginare quanto possa risultare complessa (e costosa) la gestione e la consegna in tutto il Paese e tramite un unico fornitore virtuale di prodotti che variano dai detersivi ai supporti informatici, passando per le forniture ospedaliere e la cancelleria. E l’obbligo vale indipendentemente dall’origine dei fondi utilizzati per l’acquisto, siano nazionali o di origine estera. Ci si chiede come mai gli altri Paesi, per risparmiare ed evitare la corruzione, non avvertano la necessità di un simile leviatano burocratico! L’esperienza maturata dopomesi di applicazione di questo sistema ne rivela i limiti. Tra questi, la frequente non competitività dei prezzi con quelli del mercato libero, la farraginosità delle operazionil’insorgere di imprevisti (anche informatici) che mettono a dura prova i «punti ordinanti ». I tempi e l’impegno per passare indenni attraverso le peripezie burocratiche e portare a termine una fornitura (anche di soli 100€) sono lunghi, sottraggono risorse e tempo senza offrire risparmi. Buona parte di ogni acquisto, quindi, non può essere svolta che dall’interessato: dottorandi, assegnisti e ricercatori spendono ore preziose su cataloghi vincolanti invece che in laboratorio. La ricerca italiana è riconosciuta come produttiva, quando si pesano i risultati scientifici in rapporto agli investimenti. Ma l’investimento, attorno al 1.2% del Pil (e lontano dal 3% atteso già entro il 2010), per i ritardi o il salto dei bandi, risulta «impattare» per molto meno. È un aspetto compensato, dove possibile, da fonti private oppure internazionali. Ma imporre un livello di complessità gestionale del tipo sopra citato rappresenta un ulteriore ostacolo istituzionale - e demotivante - allo sviluppo delle attività scientifiche, a volte incompatibile con le dinamiche stesse degli esperimenti e, quindi, con l’interesse primario della ricerca e del Paese che la dovrebbe ospitare. L’ammontare del finanziamento nazionale speso per l’acquisto dimateriali per la ricerca da parte di atenei ed enti pubblici è un frazione minima di quel 1.2% del Pil citato. Se si vuole aiutare la ricerca con un’iniziativa veloce e a costo zero, si può allora cominciare con il restituire alla gestione degli acquisti la snellezza con cui si opera all’estero. E così si dà un primo colpo al leviatano. 12 - continua