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Gel e Leopardi, la maturità vista da un prof

La testimonianza diretta come commissario d'esame di un insegnante di materie letterarie in una scuola secondaria di secondo grado della provincia di Bergamo

18/06/2020
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Collettiva.it

È strana la mia scuola vista così, quasi di sbieco. Accedo da un ingresso secondario. Esclusa la collaboratrice scolastica che mi prova la febbre, nel tragitto verso le aule non incontro nessuno. È stranamente silenziosa, in genere brulicante di voci e corpi che si muovono accatastandosi in spazi troppo piccoli per contenerne le energie. Ed è anche un po’ triste, vista così, ai tempi dell’esame di Stato 2020. L’esame della pandemia. L’esame del protocollo per la sicurezza anti-Covid.

Dopo quattro mesi rivedo i colleghi, finalmente senza la mediazione di uno schermo, ma non c’è nemmeno il tempo di salutarsi per bene e assaporare il gusto dell’incontro. Ci si scambia qualche parola soltanto, rigorosamente a distanza, e poi c’è subito da lavorare: controllare la documentazione, stabilire le modalità di svolgimento della prova, riabituarsi a verbali scritti in un linguaggio che risulterebbe difficilmente comprensibile a chi non si occupa di scuola, conteggiare crediti, orientarsi sui criteri di valutazione.

Se ne è fatto un gran parlare di quest’esame di maturità, accompagnato dalla retorica un po’ desueta del “rito di passaggio”, e stavolta anche da tante incertezze: si fa, non si fa, si fa a distanza. Alla fine si fa, e con una formula nuova. Niente scritti, per evitare assembramenti, ma solo una prova orale divisa in cinque parti: la discussione di un elaborato sulle materie di indirizzo preparato a casa dai candidati; il commento di un testo della letteratura italiana studiata nell’anno conclusivo degli studi; l’esposizione di un percorso interdisciplinare a partire da un documento (un quadro, una poesia, un problema, una formula, etc.); la presentazione delle esperienze maturate nei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, ovvero quella che fino a un paio di anni fa si chiamava alternanza scuola-lavoro; una riflessione sulle competenze acquisite di cittadinanza attiva, e sulla Costituzione. 

Troppo. Troppo perché se ne possa ricavare la sostanza in meno di un’ora di tempo, troppo perché questi studenti riescano a esprimersi organicamente, articolando pensieri e linguaggio in maniera spontanea, tenendo insieme alcuni tra i tanti contenuti che sono stati trattati in profondità durante l’anno, magari conversando con noi insegnanti. Sembra tutto contingentato, ridotto a un meccanismo (“sono passati dieci minuti, per cui passiamo alla prossima fase del colloquio”), senza spazi per allargare la visuale al mondo di oggi, per esempio. Ed io che vorrei sentire da loro cosa ne pensano delle rivolte degli afroamericani negli Stati Uniti, come immaginano che debbano essere i rapporti tra Stato e regioni alla luce dei recenti avvenimenti, oppure che letture autonome hanno fatto, in quali personaggi si sono identificati. No. Due parole veloci e a volte pure dette male su Leopardi o Manzoni, qualche ragionamento sulle capacità comunicative acquisite in azienda e via, verso una presunta libertà, mentre i docenti ragionano sui punteggi: “se gli mettiamo tot però non arriva alla soglia che gli consente la borsa di studio…”.

Gli studenti sembrano preoccupati ben oltre la misura che il sostenimento di un esame naturalmente genera. Forse sono anche un po’ tristi, i loro sguardi non sono quelli di chi sta portando a termine un percorso di crescita e ne coglie gli aspetti migliori. Mi pare siano lì per sbrigare una pratica, per chiudere una fase che non iniziata cinque anni fa, quando hanno cominciato il liceo, ma a febbraio, quando l’emergenza sanitaria ha portato via a diversi tra loro delle persone care e a tutti quanti un pezzetto di gioventù. Quando la pandemia li ha costretti a rinunciare, almeno in parte, anche al diritto allo studio. Il sacrificio dei docenti, che fuori dal loro contratto di lavoro hanno dato vita a una sperimentazione di didattica a distanza, non può sostituire il valore della scuola come spazio di socializzazione e di apprendimento condiviso. Soprattutto, non può farlo per chi da solo non ce la fa. Chissà se sarà chiaro dopo questa esperienza…

Oggi, comunque, persino le aule sono diverse. Il gel igienizzante, i prodotti per sanificare la postazione del computer, l’aria che sa di chimica: sembra l’anticamera di un reparto d’ospedale, questa classe in cui le parole degli studenti rimbombano per la distanza da cui provengono. Per captarle – intrappolate come sono dalla mascherina – serve un silenzio tombale, reso ancor più inquietante dalle interferenze nel collegamento con il docente che segue i lavori da casa perché considerato “soggetto fragile” dal medico competente. Superfluo specificare che spesso la connessione si interrompe e allora c’è da fermare, riavviare, ripetere (penso per un momento agli investimenti che mancano: a queste aule troppo piccole, al proiettore sgranato, ai laboratori che non ci sono, alla rete troppo lenta…).

Si fa fatica, insomma. Tanta. Più di quella che buona parte dell’opinione pubblica riconosce a chi fa questo mestiere. A me sono toccati i verbali e a fine giornata, dopo i colloqui degli alunni, mi ritrovo davanti il foglio digitale della valutazione. Per un attimo una suggestione mi attraversa la mente. Quasi quasi ci scrivo sopra: “Quel che può, fa; quel che non può, non fa”, come fece il maestro Manzi contro l’introduzione dei voti numerici. Perché vorrei tanto poter raccontare, di questi ragazzi, le passioni, gli afflati, i pensieri profondi che hanno generato quando insieme, ma davvero insieme, in presenza, abbiamo discusso di diritti, della musicalità di un verso analizzato per un’ora intera, dell’etimologia di una parola oppure addirittura d’amore. Qualcosa che oggi non è emerso.

Perché vorrei che le sperimentazioni non fossero etichette o sigle, ma laboratori veri in un contesto didattico completamente nuovo, fondato davvero sulla centralità del rapporto tra docenti e studenti. Perché sembra che quest’esame così sottotono sia una forzatura e non un “rito di passaggio”. Perché non mi pare proprio che con l’esame si entri di diritto nella storia, come ha affermato qualcuno. Se mai, nella storia ci si entra quando la si conosce bene e si è dunque in grado di metterla in discussione a partire dal presente. E non so se la scuola questo sia capace di farlo, o di farlo fare ai suoi studenti.