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I master universitari al di là del caso Schettino

di Giunio Luzzato

08/09/2014
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ROARS

Si è scritto molto sulla lezione dell’ex comandante Schettino in un Master dell’Università di Roma La Sapienza, e vi è stata anche dell’ironia sul (tardivo) intervento del Rettore Frati, sintetizzabile in: “Non ne sapevo nulla, e l’Ateneo come tale non c’entra”. Non si è discusso, invece, su che cosa significhi tale affermazione del Rettore, e su quale disfunzione del sistema accademico essa sveli. ROARS è già intervenuta qui e qui su altri aspetti del tema dei Master; questa può essere l’occasione per ritornare sulla questione.

Una premessa. In tutta Europa, i Master sono ciò che da noi si chiama Laurea Magistrale; si tratta cioè, nelle situazioni nelle quali si sono adottati i titoli a più livelli previsti dal “Processo di Bologna”, del 2° livello dei titoli universitari formalizzati, ovvero, nelle situazioni “pre-Bologna”, di un “curricolo lungo” con Tesi finale (come nel nostro “vecchio ordinamento”), analogo all’attuale LM a ciclo unico. Perfino la Francia, sempre ostile ai termini inglesi (chiama ordinateur ciò che in tutto il mondo è il computer), indica il sistema dei tre livelli di titoli universitari come L/M/D (Licence/Master -pronunciato Mastèr !-/Doctorat).

Invece in Italia (e questo ci viene spesso contestato negli incontri europei finalizzati a una comparabilità dei diversi ordinamenti universitari) indichiamo con Master i percorsi formativi, non disciplinati a livello nazionale (privi perciò del famoso “valore legale”), che le Università possono liberamente istituire in aggiunta ai Corsi di studio che conferiscono i titoli accademici.

Gli Atenei hanno stabilito proprie regolamentazioni in merito, ma di fatto l’istituzione e la gestione di essi è molto individualistica. A riprova di ciò, tutte le dichiarazioni connesse al “caso Schettino” si sono riferite al “Master del professor Mastronardi”: ma non si tratta dell’insegnamento da lui svolto personalmente, bensì dell’intero percorso formativo (come se si dicesse “Il Corso di laurea del professor XX” indentificandolo con il Presidente del Consiglio di Corso di studio). La stessa autodifesa di Mastronardi (“L’intervento di Schettino si è svolto all’interno di un seminario, che avevo organizzato collateralmente al Master vero e proprio”) è tutta in prima persona singolare, a conferma del fatto che il Master è gestito come una proprietà personale; nella sua lettera al Corriere della sera (15/08/2014) non vi è un solo riferimento a organismi didattici collegiali che abbiano deliberato alcunché.

Beninteso, la qualità didattica di un Master universitario può essere ottima (ma anche pessima); ciò che appare deplorevole è che le modalità di svolgimento di un intervento formativo che viene presentato con l’etichetta di un Ateneo non comportino una responsabilità collegiale da parte di una struttura didattica dell’Ateneo stesso.

Ancor più deplorevole è che Frati ritenga questo del tutto normale (“L’Ateneo non c’entra”): non basta deferire un professore, per le decisioni da lui assunte, al Comitato etico dell’Università se non si analizzano i difetti del sistema che gli ha consentito di decidere in totale arbitrio, e se non si opera per modificare tale sistema. Difetti che, per molti Atenei, consistono non tanto nelle norme teoriche scritte nei Regolamenti, quanto nelle prassi gestionali; va comunque rilevato che già il mero esame dei Regolamenti dei Master adottati dalle diverse Università mostra grande attenzione alle procedure per l’istituzione, poca per la gestione (quasi mai sono individuati organismi specifici a ciò deputati).

Vi è anche da augurarsi che la situazione dei Master induca a qualche riflessione autocritica gli Universitari che con veemenza contestano le modalità con le quali i Corsi di studio (quelli “ufficiali”, Lauree L e Lauree Magistrali LM) vengono organizzati, accreditati e valutati: giusto contrapporsi ad alcuni eccessi burocratici nella relativa regolamentazione e nelle procedure di verifica, ma regolamentazioni troppo lasche e scarsità di verifiche provocano casi come quello emerso alla Sapienza.

Al di là delle critiche, ritengo giusto -anche perché ho collaborato con alcune attività dell’ANVUR- chiarire il mio punto di vista personale. Non auspico assolutamente una regolamentazione nazionale per i Master: proprio perché difendo il valore legale di L e LM (che scomparirebbe senza una regolamentazione nazionale), ritengo positivo che accanto ai Corsi che forniscono titoli formali esista anche una offerta formativa (senza valore legale) di cui siano responsabili in toto i singoli Atenei; ritengo invece del tutto negativo che questa responsabilità essi non se la assumano come istituzione, col risultato che dove non c’è AVA c’è Schettino.

In una recente relazione, Matteo Turri critica il sistema AVA confrontandolo con altre esperienze europee: egli rileva che le valutazioni nazionali centrano abitualmente l’attenzione non sui singoli Corsi di studio, bensì sul funzionamento complessivo degli Atenei e in particolare sulla loro capacità di svolgere una efficace valutazione interna. Se si vuole migliorare AVA bisogna perciò che le singole Università sappiano essere rigorose; non si riuscirà mai a ottenere un sistema di verifiche meno centralizzato se, dove manca l’occhiuta ANVUR, i professori operano come singoli senza che gli Atenei riescano a governare seriamente l’istituzione.

La Ministra Giannini, giustamente, ha detto che non le compete intervenire sul caso specifico di Schettino alla Sapienza. E’ però auspicabile che colga questa occasione per esaminare in termini generali, attraverso una puntuale indagine ministeriale, la gestione dei Master universitari, che si sono espansi oltremodo (in un periodo di dolorose ristrettezze per i Corsi “ufficiali”), e sulla quale vi sono molti complici silenzi anche perché essi consentono ai professori di integrare lo stipendio con un introito aggiuntivo. Una retribuzione aggiuntiva compete solo se chi insegna nel Master svolge già, negli insegnamenti dei Corsi di studio, il massimo delle ore previste dalla regolamentazione sui doveri didattici. Spetta agli Atenei verificare con rigore se questa condizione viene soddisfatta; ancora una volta, è auspicabile non che si instaurino controlli centralizzati, bensì che le Università siano chiamate a dimostrare che la loro autonomia risulta accountable, cioè trasparente, collegialmente responsabile e non ridotta a somma di arbitrarietà individuali.