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I numeri che non mentono

Ogni giorno il sistema dell'istruzione muove 15 milioni di persone tra studenti, lavoratori e genitori: un quarto dell'intera popolazione italiana. Questi dati dovrebbero chiarire perché aprire o chiudere contribuisce alla diffusione o al contenimento del virus, a prescindere dal rispetto  –  dentro agli istituti  – delle più rigide misure di sicurezza sanitaria

07/04/2021
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Collettiva.it

Lorenzo Cassata è ricercatore Istat e rsu Flc Cgil

Chiudere le scuole e attivare la “didattica a distanza” è stata una delle prime misure emergenziali adottate nel corso della prima ondata e l’ultima ad essere attivata nel corso della seconda in tutto il mondo.

In questo anno, in Italia, si è certamente fatto troppo poco per invertire un andamento pluridecennale di sovraffollamento delle classi, taglio di insegnanti e personale tecnico-amministrativo, per prevedere un trasporto pubblico dedicato e potenziato. Anche sulle misure di sicurezza si poteva e si può fare molto meglio, ad esempio prevedendo uno screening di massa periodico, o fornendo mascherine a lavoratrici e  lavoratori della scuola con un maggiore fattore di protezione. Si sarebbe e si potrebbe ancora dare maggiore autonomia alle singole scuole nel trovare soluzioni “alternative” di didattica all’aperto, in spazi più grandi e con un distanziamento maggiore. 

Ma guardandosi intorno si fatica a trovare un Paese che abbia fatto molto meglio o abbia agito in maniera così diversa dall’Italia. Sulla base di quali dati si chiudono le scuole? Se lo chiedono molti osservatori e cittadini.  Alcuni dati oggettivi forse aiutano molto di più nella risposta a questa domanda rispetto ad altri numeri, più o meno attendibili, che si sono rimpallati su alcuni giornali nelle scorse settimane.

La scuola italiana (dati del ministero) muove 886 mila insegnanti, 211 mila tecnici e amministrativi, 8 milioni e 326 mila studenti, 4 milioni di genitori (corrispondenti agli studenti delle scuole d’infanzia e primarie, ipotizzando un solo genitore per alunno che accompagna i figli: una stima per difetto).  A questi numeri vanno aggiunti quelli del personale non assunto direttamente ma operante nelle scuole (lavoratori delle mense e delle pulizie), le scuole private e gli asili comunali.

In totale si arriva almeno a 15 milioni di persone che si muovono o meno (2 volte al giorno: per andare fisicamente a scuola e dopo l’uscita) se le scuole sono aperte o chiuse, ovvero un quarto dell’intera popolazione italiana.

E se aggiungiamo le università? Quante persone muove l’università? Ci sono 1 milione e 700 mila studenti iscritti, 70 mila tra professori, ricercatori e assegnisti, 54 mila tecnici e amministrativi. A questi numeri ufficiali vanno aggiunti i dottorandi, i docenti a contratto, i co.co.co., i borsisti, il personale delle ditte in appalto (guardiania e vigilanza, pulizia, mense ecc.), e tutte le università private: si arriva almeno a 2 milioni di persone.

Questi numeri dovrebbero chiarire perché aprire o chiudere le scuole e le università contribuisce  alla diffusione o al contenimento del contagio, a prescindere dal rispetto  –  dentro le scuole  – delle più rigide misure di sicurezza sanitaria. La “ricerche” che indicano le scuole come sicure, ma anche quelle che si soffermano sulle falle del sistema di contenimento del contagio, non tengono conto di questo macroscopico dato di fondo. Chiudere scuole e università attivando la didattica a distanza è una misura brutale, ma necessaria, quando il contagio è ampio nella comunità: questa è la vera indicazione certa che proviene dagli studi internazionali. La scuola è sicura se è sicuro il paese, e viceversa.

È quindi giusto continuare a mobilitarsi per chiedere in primo luogo di rendere le lezioni in presenza più sicure (nell’interesse di chi ci lavora, degli studenti e di tutti i cittadini italiani), in ambienti ampi e ventilati, con un numero maggiore di insegnanti e di personale tecnico-amministrativo, con un monitoraggio continuo e trasporti pubblici e privati adeguati. Ed è giusto anche, in secondo luogo, chiedere di aprire scuole e università dove le misure di sicurezza e monitoraggio siano state effettivamente attivate e non appena i numeri del contagio lo rendano possibile. 

Se si fa il contrario, cioè si chiede di aprire whatever it takes, dove quel whatever ha significato finora centinaia di morti quotidiane, e solo dopo eventualmente di investire nella sicurezza delle strutture scolastiche e del paese in generale, si rischia di diventare come quei leader politici che recitano da un anno la parte degli “aperturisti”. Creando un nemico immaginario che impone la chiusura di ristoranti, cinema o discoteche in odio all’impresa e quella della scuola in odio alla cultura.