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Il controllo dello Stato sulle università

«Le università britanniche, Oxford e Cambridge incluse, sono sotto assedio da parte di un sistema di controllo statale che sta erodendo la cosa da cui dipende la loro reputazione mondiale: il calibro della loro scholarship»...

05/01/2011
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Il Riformista

Mario Ricciardi

«Le università britanniche, Oxford e Cambridge incluse, sono sotto assedio da parte di un sistema di controllo statale che sta erodendo la cosa da cui dipende la loro reputazione mondiale: il calibro della loro scholarship». Chi scrive è Simon Head, e il brano che abbiamo riportato è tratto da un saggio di grande interesse appena pubblicato su The New York Review of Books (accessibile on-line sul sito della rivista https://www.nybooks.com/). Head attualmente è Associate Fellow al Rothermere American Institute a Oxford, e Scholar all’Institute for Public Knowledge a New York, ma non è un accademico. Oltre a scrivere per la NYRB, è stato corrispondente del Financial Times e del New Statesman. Di recente ha pubblicato, con Oxford University Press, “The New Ruthless Economics”, uno studio dell’impatto della information technology sul lavoro.
Come nasce il sistema di controllo statale di cui parla Head, e perché è così pericoloso per l’eccellenza accademica di università come Oxford o Cambridge? Per ricostruire il fenomeno di cui l’autore si occupa bisogna tornare indietro nel tempo, agli anni dei governi Thatcher. Come è noto, tra la signora e le università, in particolare Oxford, non correva buon sangue. La spiegazione di questa antipatia è da rintracciarsi probabilmente nell’insofferenza del primo ministro nei confronti di istituzioni abituate a una quasi totale autonomia organizzativa, e a un atteggiamento di sovrano disprezzo nei confronti dei valori “middle class” cui la figlia del verduraio di Grantham si richiamava continuamente. Ciò che la Thatcher trovava in particolare difficile da sopportare era l’idea di intellettuali foraggiati con il denaro pubblico, rinchiusi nei chiostri dei college, che passano il proprio tempo a denigrare i “produttori di ricchezza” del Regno Unito. Un oltraggio cui la signora era decisa a metter fine, estirpando la mala pianta dell’arroganza accademica. Per realizzare questo scopo bisognava far passare un diverso modo di considerare l’università rispetto a quello tradizionale, di cui Oxford e Cambridge erano sia la manifestazione più importante sia le custodi più gelose.
Head riassume così il nuovo modo di concepire l’università che si è affermato a partire dagli anni dei governi Thatcher: «Per fornire un valore per chi paga le tasse, l’accademia deve consegnare la sua ricerca “prodotto” con una velocità e un’affidabilità che assomigli a quella del mondo dell’impresa privata e inoltre consegnare ricerca che in qualche modo risulterà utile per i settori pubblico e privato della società britannica, rafforzando le prestazioni che il secondo ha nel mercato globale». Nulla a che fare dunque con la cultura, l’identità nazionale o il progresso della conoscenza. Le tradizionali giustificazioni del sistema universitario, e del contributo pubblico al suo finanziamento, sono per i sostenitori di questo nuovo modo di concepire l’istruzione superiore e il suo ruolo niente altro che foglie di fico servite per decenni a mascherare il desiderio di una corporazione di continuare a preservare i propri privilegi.
Da questa esigenza di rottura col passato nasce una struttura, l’Audit Commission, che è il primo passo nell’edificazione del sistema di controllo che oggi corre il rischio di strangolare l’eccellenza. Una burocrazia opprimente, il cui compito è “misurare” il prodotto delle università attraverso i “Key Performance Indicators” (l’acronimo è KPIs) ispirati dai metodi impiegati nelle imprese private, cresce di anno in anno stringendo progressivamente la ricerca in una stretta che ormai rischia di soffocarla. Sempre più spesso accade che gli accademici britannici modulino i propri progetti di ricerca e le proprie pubblicazioni avendo in vista le scadenze dei Research Assessment da cui dipende il finanziamento pubblico. Così facendo, essi si adeguano alle pressioni del management delle università che - avendo il dovere di far quadrare i conti - è interessato soprattutto a risultati di breve periodo e scoraggia lavori che richiedono un impegno di diversi anni. Lascio al lettore la lettura del documentato contributo di Head, che spiega nei dettagli come e perché questa idea della ricerca come prodotto abbia innescato distorsioni sempre più gravi, di cui da qualche tempo l’università britannica comincia ad avvertire le conseguenze in maniera sempre più pesante. Mi limito a osservare che di contributi come questo - e dei tanti altri che negli ultimi anni cominciano a mettere in discussione la follia di applicare meccanicamente modelli costruiti per misurare la produzione di merci e servizi alla ricerca - non si è parlato e non si parla nel nostro paese. Nemmeno da parte di chi ha criticato la legge sull’università recentemente approvata. Eppure ci sarebbe molto da imparare da ciò che è accaduto e che sta accadendo nel Regno Unito (la situazione degli Stati Uniti è difficilmente comparabile a quella del nostro paese). Soprattutto, sarebbe auspicabile riflettere su un progetto di riforma dell’università partito suonando la fanfara delle libertà e del merito che ha generato invece un apparato burocratico di tipo sovietico