Il discorso conclusivo di Guglielmo Epifani
Roma 4 aprile
Roma, 4 aprile - L'intervento del segretario generale, Guglielmo Epifani, alla manifestazione nazionale della Cgil 'Futuro Sì Indietro No' Care compagne e cari compagni; Credo che comprenderete perché voglio dire che per noi tutti, oggi, è un grande motivo di orgoglio, e anche di emozione, tornare qui insieme in questa piazza. Qui dove tre milioni di persone scrissero una pagina che nessuno ha scordato in difesa dei diritti dei lavoratori. Di tutti i lavoratori. E dove assieme rispondemmo alla follia disumana del terrorismo. È una soddisfazione averla riempita ancora una volta e non era scontato per niente. Solo chi ci giudica seduto da una poltrona, o da fuori, oppure non sa o non vuole sapere o non vuole informare, può pensare che tutto possa ripetersi così, quasi per caso. Non è così. Soprattutto con una crisi grande come questa. Se siamo in tanti lo si deve al lavoro, alla passione, alla determinazione, alla fiducia, alla speranza, dei veri protagonisti di questa giornata: l’Italia del lavoro, l’Italia dei giovani, l’Italia dei precari, l’Itali degli anziani e dei pensionati Voglio per questo ringraziare tutte e tutti e soprattutto quelli che hanno fatto sacrifici per essere qui tra di noi. C’è chi è partito venerdì alle 13 e tornerà a casa alla stessa ora di domenica. C’è chi ha finito ieri di lavorare e ha preso un pullman, passandoci l’intera notte, per essere qui di primo mattino. Ci sono tanti anziani oggi, tanti pensionati, che ancora una volta si sono rimessi in marcia per dimostrare quale dignità e quale forza morale essi sanno esprimere. E voglio in modo particolare ringraziare i giovani, i giovani in formazione, i giovani a lavoro, i tanti precari, quelli in cassa integrazione, che sono qui con noi perché questa manifestazione parla del futuro che pensiamo per loro. La Cgil ringrazia i tanti artisti, uomini e donne della cultura, dello spettacolo, della ricerca, dell’università, che hanno sostenuto questa giornata e ne hanno condiviso gli obiettivi. Ringrazio chi ha condotto questa manifestazione, ringrazio chi ha interpretato Di Vittorio, ringrazio tutti i musicisti che ci hanno accompagnato. Grazie per quello che fate in un momento non facile per la vita dei lavoratori, della cultura e dello spettacolo. E voglio ringraziare le tante associazioni, i movimenti, i circoli, le reti sociali che sono presenti. Una per tutte. La più antica e la più giovane: l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Ringrazio gli amministratori qui presenti, i presidenti di Regione e di Provincia, i Sindaci, i parlamentari nazionali ed europei, gli uomini politici che condividono la nostra battaglia, che è fatta di valori, di proposte, di progetti, per i diritti dei cittadini e per la condizione dei lavoratori, dei giovani e dei pensionati. Consentitemi di ringraziare, a nome di tutti voi, il nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per l’equilibrio e per la fermezza con cui svolge il suo alto compito e per l’attenzione e l’affetto con cui partecipa alla condizione del mondo del lavoro. Per l’impegno che ha messo e che continua a mettere sul tema dei morti per lavoro e della sicurezza del lavoro. Arriviamo qui al Circo Massimo dopo mesi e mesi di iniziative, di lotte, di mobilitazioni e di proposte, che cominciarono in una giornata di settembre quando, in 150 città d’Italia, chiedemmo già allora al Governo di darsi una mossa, di darsi una sveglia, di fronte alla crisi che avanzava e che non poteva essere affrontata con una legge Finanziaria di carattere ordinario. Ricordo che chiedemmo in quelle piazze più risorse per gli investimenti, per gli ammortizzatori, per la difesa dei redditi. Ponemmo il grande tema della difesa della scuola pubblica contro quei tagli che venivano sbandierati come una riforma. Qualche giorno dopo, il 30 ottobre, si tenne la più grande unitaria giornata di sciopero e di manifestazione della scuola italiana. Roma fu invasa da un’ondata di giovani, famiglie e insegnanti che chiesero di cambiare il decreto del governo. Ricordo che neanche i pallottolieri dei nostri ministri poterono nascondere le cifre e la forza di quella giornata. Poi il 5 novembre una assemblea di quadri e delegati della Cgil approvò una proposta in 6 punti contro la crisi e contro la situazione sociale del paese, chiedendo, di fronte alla valanga di cassa integrazione e disoccupazione che si annunciava, una diversa politica economica. Quel giorno dicemmo una frase che poi è ritornata spesso: “a una crisi eccezionale si risponde con una politica eccezionale”. Il governo invece non rispose. Erano giorni quelli in cui il governo sosteneva che la legge Finanziaria andava bene così com’era, che tutto era previsto, che i soldi per gli ammortizzatori sociali sarebbero bastati e che i precari del settore pubblico e della scuola non si potevano stabilizzare. Così come che la tredicesima non si poteva detassare e che la social card avrebbe dato risposte a tanti anziani e pensionati poveri. Il Governo aggiungeva anche, qualche settimana dopo, che sarebbe bastato consumare un po’ di più per far ripartire i consumi e per rendere la crisi più sopportabile. Fu per questo che il 12 dicembre scioperammo in tutta Italia. Per chiedere più lavoro, più salari, più pensione, più diritti e meno carità. E mentre tutti i paesi europei e del mondo intervenivano per aiutare i salari e gli stipendi, per aiutare le imprese in difficoltà, per mettere in sicurezza le banche, da noi non si faceva nulla. Intanto il 2008 si chiudeva con un Pil che diminuiva dell1%, segnando il peggior risultato di tutte le economie dei paesi europei. Mentre avveniva tutto questo, i lavoratori dipendenti e i pensionati, cioè tutti noi, pagavano 8 miliardi in più di tasse al nostro Stato quando gli altri, invece, ne pagavano sempre di meno. In più si allargava la cassa integrazione e i precari, la generazione degli ultimi 10 anni, venivano messi giorno dopo giorno, l’uno dopo l’altro, fuori dalle aziende senza alcuna tutela, con pochi diritti quando c’era la crescita e senza nulla quando è arrivata la crisi. Arrivammo all’assurdo, mesi e mesi di ritardo, di discussioni infinite, dentro il Governo e la maggioranza, su se e come aiutare i settori strategici della nostra economia, a partire dal settore dell’auto e dei beni durevoli. Quando, invece, in tutta Europa aveva già deciso. Con il crollo della produzione industriale di dicembre e di gennaio - meno 45% e meno 50% - le settimane di cassa integrazione in quei settori dilagavano e segnavano la scomparsa di tante piccole e piccolissime imprese che fornivano materiale a quegli stessi settori. Diciamolo con forza: sì il tempo purtroppo ci ha dato ragione. Una crisi profonda, una crisi lunga, che tocca soprattutto l’industria manifatturiera, il settore delle costruzioni e dell’edilizia, e i servizi collegati. Meno 20% è la produzione industriale di marzo. Un milione di posti di lavoro fermi e tanti altri perduti. Ma ogni giorno aumenta il numero delle aziende in difficoltà: dalla Puglia alle Marche, dal Piemonte alla Toscana, dal Veneto all’Emilia Romagna, dalla Campania alla Sardegna, alle altre situazioni. Fabbriche e lavoratori che sono qui con noi, oggi, e ai quali va l’abbraccio di tutta la Cgil e, se posso dirlo, di tutto il paese. La metalmeccanica, la chimica, l’edilizia, la ceramica, il legno, il tessile, questi i settori più colpiti. In molte imprese stanno finendo le 52 settimane di cassa integrazione ordinaria e a tutt’oggi non è chiaro che cosa accadrà e come funzionerà l’accordo sugli ammortizzatori tra Governo e Regioni. I migranti, i precari, le donne, gli ultra cinquantenni, le persone più colpite. Si poteva e si doveva cambiare la Bossi Fini per dare un tempo giusto a quei lavoratori migranti che venivano messi, e sono messi, fuori dai posti di lavoro. Il Governo non lo ha voluto fare. Si dovevano aumentare le tutele per i precari e lo si è fatto per pochi e per troppo poco. Sulle donne, invece, solo banalità, parole in libertà tra richieste di aumentare la loro età pensionabile e i tentativi di svilire il loro ruolo. E pensare che nel 2009 la disoccupazione femminile crescerà di 340mila donne. Mentre la più mite, la più straordinaria e silenziosa rivoluzione dei diritti degli anni sessanta, quella relativa alle libertà e alle responsabilità delle donne, viene continuamente messa in discussione. In tutto questo periodo, e attraverso le tante iniziative degli ultimi mesi che abbiamo fatto in ogni parte del paese, torna la domanda di allora: perché il Governo non ha voluto e non vuole fare di più? Perché, tolto l’aiuto alle banche, fino a oggi ha affrontato una crisi di queste dimensioni con una spesa di solo 4 miliardi di euro aggiuntivi? Perché non avverte l’urgenza di un disegno di politica industriale? Perché non apre i tavoli che gli chiediamo? Perché improvvisa sull’edilizia, tra grandi opere che se va bene partiranno quando la crisi sarà finita e piani per la casa improvvisati e pasticciati e che dimenticano totalmente il tema degli affitti? Perché non attiva da subito la domanda pubblica degli enti locali, consentendo di superare quella rigidità dei patti di stabilità? Perché, invece di stare lì a contare e ricontare quanti sono, intanto non offre una soluzione al problema dei precari del settore pubblico e della scuola? Perché di fronte ai problemi che ci sono stati non si decide con noi, ascoltando le associazioni e i sindacati di categoria, di cambiare la social card e di affrontare in modo più degno e più esteso la questione della difesa dei redditi dei pensionati e degli anziani più poveri? E ancora, perché, cosa aspetta, di fronte al dato delle 52 settimane di cassa integrazione che è al termine per molte aziende, a decidere subito di estendere la durata della cassa integrazione ordinaria per evitare che il passaggio a quella straordinaria voglia dire ristrutturazione, mobilità, licenziamento di lavoratrici e di lavoratori? Non c’è niente da fare. In tutta onestà c’è troppo divario tra quello che bisognava fare e quello che quotidianamente il Governo non fa. E in questo vuoto, se la crisi si dovesse prolungare, finirebbero per ritrovarsi in troppi senza tutele. Penso ai precari senza prospettiva. I cassintegrati a 600/700 euro al mese. I cinquantenni in mobilità e in difficoltà. Gli anziani poveri e soprattutto quelli non autosufficienti. Ma in quel buco nero finirebbero anche tante aziende, le grandi aziende in crisi, le piccole e medie imprese. Come i territori segnati da crisi sociali enormi. Per questo, per queste ragioni, che sono sindacali, sociali, civili, morali, abbiamo scelto di stare in campo anche quando gli altri non ci hanno consentito di fare assieme le battaglie che dovevamo fare insieme. Perché vedete, e lo dico a quelli che ogni tanto ci dicono che noi vogliamo rendere la crisi più grave di quello che è, non abbiamo paura della crisi se la possiamo guardare in faccia per quello che è e allo stesso il Governo fa la stessa cosa. Perché non basta minimizzare. Bisogna vedere la realtà come cambia ogni giorno. I problemi concreti che pone alle persone. E non basta guardare perché poi bisogna agire. Non va bene aspettare pensando che tanto poi passerà la nottata. Come si affronterà la crisi segnerà i valori, le politiche dell’Italia e dell’Europa che verrà. Da questa nottata, da come sarà, dipenderà il nuovo giorno. Quello che cantava Shapiro: il sole che verrà e se verrà dipenderà da quelli che in questa nottata sono stati messi in condizione di affrontarla con dignità e sicurezza. Ad esempio, se alimenti la paura e la diffidenza, avremmo un Italia più chiusa, più xenofoba, come abbiamo visto dagli interventi di questa mattina. Se ognuno dovrà arrangiarsi da solo per affrontare e superare la crisi, l’Italia sarà per forza quella che uscirà dalla crisi più individualista e più corporativa. Se alimenti solo i patrimoni e le rendite e non i capitali di rischio, gli investimenti, la ricerca, l’innovazione, farai un paese sempre meno proiettato davanti e sempre più immobile nelle proprie gerarchie sociali. Dove gli ultimi resteranno gli ultimi e chi sta in testa resterà sempre in testa. Seriduci gli spazi di contrattazione, riduci i diritti dei lavoratori, avrai un mondo del lavoro più debole e più diviso. Se intervieni unilateralmente su come disciplinare o regolare il diritto di sciopero, avrai delle grandi organizzazioni dei lavoratori in difficoltà nell’esprimere quei doveri che queste hanno saputo assicurare fino ad oggi. Se rinunci alla lotta all’evasione fiscale, non ti batti contro chi fa il furbo, e non restituisci il drenaggio fiscale a chi fa il proprio dovere, ovvero lavoratori o pensionati o altri cittadini, disegni un paese in cui il grosso dei sacrifici e dei doveri fiscali li fa l’Italia che lavora e non l’Italia delle rendite, dei patrimoni, dei furbi e dei furbetti.
Se rinunci senza neanche aver consentito che entrassero in vigore gli adempimenti e le sanzioni della legge approvata dal precedente governo in materia di sicurezza del lavoro, per forza di cose disegni un paese in cui si abbasserà la guardia su questi temi e metti un macigno sulla sicurezza delle persone che lavorano. Se fai mancare le risorse pubbliche alla sanità e alla scuola, disegni un Italia meno sicura con i cittadini, tra di loro, meno uguali. Se tagli la sicurezza pubblica, e fai organizzare le ronde, avrai un’Italia ancora meno sicura e sicuramente più divisa e vulnerabile Il nostro presidente del Consiglio, prima di partire per Londra, ha parlato di impegno sociale e di possibilità di utilizzare una manovra di bilancio per non lasciare indietro nessuno. Chiediamo formalmente al presidente del Consiglio, se le sue sono parole dette con sincerità, di aprire subito un tavolo vero di confronto sulla crisi perché si possa ascoltare in modo reale, sereno, serio e ordinato, le cose che vanno fatte per trovare una prospettiva ai problemi, ai bisogni e alle difficoltà di una parte grande del paese. Non vuol essere questa richiesta una sfida ma un invito, almeno per una volta, a verificare se è possibile avere un tavolo vero di confronto. Anche perché, sebbene non si sia in grado di fare previsioni attendibili, se la ricchezza del paese dovesse, secondo le indicazioni di chi se ne occupa, scendere del 4% in questo 2009 questa caduta non la si potrà affrontare né con battute né con misure che non siano all’altezza dei problemi che questa caduta di ricchezza produce. Perché, e lo voglio dire con il cuore in mano, dietro questi numeri astratti ci sono i problemi, la prospettiva, la vita, di milioni e milioni di persone e anche di tante imprese. Per questo, quando il governo disse tempo fa ‘cosa volete che sia se il Pil scende del 2%. Vorrà dire che torniamo a tre anni fa’ io mi arrabbiai molto perché, purtroppo, quel 4%, o quello che sarà, non vuol dire ritornare a sei, sette, dieci anni fa, per molte persone quel ritorno indietro è un ritorno nel vuoto. Per quelli che hanno un lavoro e non lo avranno più. Per quelli che avevano una prospettiva e non se la ritroveranno più. Per loro e per le loro famiglie. Diventa un vuoto anche di fronte a tanti piccoli, piccolissimi artigiani e imprenditori per i quali non c’è ritorno indietro una volta che la loro attività o la loro impresa dovesse non farcela. Aprire un tavolo vero di confronto non è un tema di forma, non è una questione di metodo, ma è di sostanza. Vuol dire farla finita con l’autosufficienza, vuol dire essere disposti ad ascoltare e a dialogare realmente, vuol dire riconoscere quel senso del limite di sé che in democrazia ognuno deve sapere avere, compreso per quel che ci riguarda il sindacato. Quello che propongo è un tavolo che possa affrontare quattro problemi: il primo, le politiche industriali e gli investimenti a partire dalle aree di crisi e dal Mezzogiorno. Abbiamo chiesto nei giorni scorsi un incontro sul piano industriale della Fiat, abbiamo chiesto e aspettiamo il tavolo sulla chimica, stiamo chiedendo, rispetto a tante crisi aziendali, un tavolo su cui si possa discutere seriamente delle prospettive industriali del nostro paese. Secondo, discutere, cifre alla mano, sulla capienza e congruità degli ammortizzatori sociali, con particolare attenzione ai redditi per i precari e per i quali fino a oggi non è previsto nulla. E cercare, inoltre, di poter avere un blocco effettivo dei licenziamenti di fronte alla crisi in tutto il paese. Terzo, un tavolo per discutere della condizione e del reddito degli anziani e dei pensionati che, come ha dimostrato la grande manifestazione dello Spi a Roma, sono i grandi dimenticati di questa crisi. Infine, il tema della giustizia fiscale, della lotta all’evasione fiscale, della restituzione del drenaggio fiscale a chi fa per intero il proprio dovere. E aggiungo che tra le priorità della politica industriale converrà anche al nostro paese e al nostro governo di provare a farsi un’idea di come possa essere uno sviluppo economicamente e ecologicamente sostenibile. Perché è la sfida del futuro: quella dello sviluppo che investe nelle fonti rinnovabili, nelle energie rinnovabili e nella lotta agli sprechi. Così come tutti i paesi al mondo stanno facendo. Penso che su un tavolo di queste dimensioni e di queste caratteristiche Cisl e Uil possano essere d’accordo con queste richiesta. Perché i temi sono comuni e perché abbiamo bisogno di riaffermare il peso di tutto il sindacato confederale per difendere i precari, i lavoratori e i pensionati. La divisione su questi temi non può essere quella che abbiamo registrato fino ad oggi perché la crisi riguarda tutti e ci chiede di restare uniti. Naturalmente penso che anche Confindustria avrebbe interesse a un tavolo vero di confronto. Le imprese come i lavoratori possono pagare due volte la crisi. In sostanza, senza una politica industriale, senza una politica di sviluppo di integrazione delle reti e delle infrastrutture, senza un cuore verde alle prospettive dello sviluppo del futuro, il nostro diventerà un paese più debole in Europa, più debole nel mondo e con le basi produttive molto più fragili.
Confindustria ha fatto un gravissimo errore con l’accordo separato sulle regole contrattuali. La crisi richiedeva unità e non divisioni. Non va bene usare la crisi per ridurre gli spazi della contrattazione collettiva e i diritti dei lavoratori. Mi ha molto colpito, nella riunione dei ministri del lavoro della settimana scorsa qui a Roma, l’intervento della nuova segretaria al lavoro dell’amministrazione degli Stati Uniti del governo di Obama, la quale, rivolta a noi e ai ministri presenti, ha detto testualmente ‘non si può approfittare della crisi per ridurre gli spazi, i livelli e la qualità della contrattazione collettiva’. Ma c’è un motivo in più per difendere la contrattazione. Leggiamo in questi giorni quello che succede in Europa, nel mondo, le preoccupazioni che la crisi genera sulle persone e quello che ovviamente può scatenare o suscitare. Io no so se qualcuno lo sa: noi lo sappiamo. In questi mesi di crisi, insieme con gli altri, abbiamo fatto 5mila intese aziendali per dare una mano, per aiutare, per quello che era possibile, per evitare che i lavoratori stessero fuori dalle aziende, per dare una speranza che guardasse al futuro. Per questo noi siamo fondamentali e la contrattazione collettiva non può essere sostituita da niente. Non dagli enti bilaterali, non da politiche astratte e neanche, mi permetto di dirlo, da provvedimenti autoritari che spesso sanciscono esattamente l’effetto opposto di quello che pensano di evitare. Per questo noi chiediamo, e ci batteremo, perché la contrattazione non sia limitata. Ma c’è un però. Spesso leggiamo tante persone che appartengono alla classe dirigente del paese darci qualche suggerimento, qualche consiglio, talvolta qualche ammonimento. Bene. Non sarebbe ora che le classi dirigenti del nostro paese fossero un po’ meno chiuse e un po’ meno egoiste e più disponibili verso le ragioni, anche morali, del movimento sindacale e della condizione dei lavoratori e dei anziani? Se si vuole, come si vede, evitare le divisioni sociali, le spaccature, e consentitemi anche quelle tragedie familiari e personali come quella di quel geometra, di quel lavoratore di Genova, che si è tolto la vita perché non riusciva più a trovare un posto di lavoro, bisogna fare di più e affrontare i problemi con gli strumenti adatti. Certo per fare politica industriale non bastano solo le risorse, ci vuole qualcosa di più, ma senza risorse non si va lontano e inevitabilmente si sceglie quelli che ce la possono fare e quelli che si fermeranno prima: parlo delle imprese e parlo dei lavoratori. Anche gli Enti locali, le Regioni, i Comuni, le Province, hanno bisogno di un tavolo contro la crisi. La coesione riguarda anche i rapporti tra le istituzioni della Repubblica che non si risolvono con le forzature, con i nuovi centralismi, svuotando le risorse in dotazione ai Comuni, perché le reti sociali, nei momenti di crisi, sono il più grande ammortizzatore sociale per le persone che si trovano in estrema difficoltà. Noi abbiamo svolto - e vi ringrazio, ringrazio tutta la Cgil - in queste settimane oltre 57mila assemblee nei luoghi di lavoro e nelle leghe dei pensionati. Abbiamo incontrato milioni di persone, chiesto una discussione, un parere e un voto. Hanno risposto in tanti: 3 milioni e 600 mila persone in quattro settimane hanno partecipato alla nostra votazione, al nostro referendum. E 3 milioni e 400mila hanno detto ‘No’ all’accordo separato, firmato senza la Cgil. Un numero grande che è stato oscurato dai mezzi di comunicazione di massa, ma che nessuno ha osato mettere in discussione. Allora, se le cose stanno così, far finta di nulla, irridere questi lavoratori e questi pensionati non è una cosa seria. Se solo fosse possibile, noi, che abbiamo fatto questo lavoro in queste settimane, saremo pronti a mettere da parte tutto e a fare un referendum unitario con esito vincolante almeno per quello che riguarda la Cgil. Ma non si può giocare con la democrazia: o c’è o non c’è. E non ci può essere soltanto quando si è sicuri di vincere e mai quando il risultato può essere messo in dubbio. Noi siamo pronti a discutere le regole sulla rappresentatività e a trovare una intesa unitaria. Lo stesso deve essere per i mandati e le verifiche democratiche. Come si può giustificare il fatto che si può fare un referendum in una azienda come la Piaggio, dove c’è stato un accordo separato, e la settimana dopo in un'altra azienda, dove c’è stato un altro accordo separato, lo stesso referendum non si possa fare? Come funziona il rispetto delle regole e il rispetto della democrazia? E ancora in caso di giudizi diversi sui futuri contratti collettivi di lavoro, chi decide e come si deciderà? Il sistema contrattuale serve a dare regole certe a tutti. Se diventa fonte di divisioni, se mette gli accordi contro la democrazia, se tutto diventa confusione e disordine quel sistema tradisce il suo compito e può diventare dannoso, non solo per i lavoratori, ma anche per il sistema delle imprese. Noi serenamente, ma fermamente, siamo convinti delle ragioni che abbiamo sostenuto nel corso del confronto sul sistema contrattuale e continueremo a batterci per avere più contrattazione e non meno contrattazione. Per avere un contratto nazionale non solo degno di questo nome ma che non programmi sistematicamente la riduzione del potere d’acquisto. Per avere un secondo livello di contrattazione sempre più ampio e sempre più vasto. E per discutere tutti gli aspetti della condizione del lavoro. Lungo questa strada, care compagne e compagni, continueremo il nostro impegno. Come deve fare in autonomia e unità una grande forza sindacale. D’altra parte, per quanto lo si possa tacere, in tutta Europa la mobilitazione del mondo del lavoro è forte. A maggio quattro capitali europee manifesteranno tra il 14 e il 16: Berlino, Praga, Madrid e Bruxelles. Sabato scorso il sindacato inglese ha tenuto una grande manifestazione a Londra e il suo segretario generale ci ha mandato un messaggio di sostegno e di questo lo ringrazio vivamente. Come voglio ringraziare le delegazioni straniere che sono qui presenti. Abbiamo bisogno di tenere questi collegamenti, questa politica europea e internazionale perché lo abbiamo visto: la crisi mette gli uni contro gli altri e gli uni e gli altri possono sempre essere diversi fino a diventare i veri ultimi. Come quei clandestini morti annegati nella più grande tragedia che si è consumata in queste ore nel mar Mediterraneo. Una tragedia che vorrei non venga né dimenticata né rimossa. Spero per vergogna temo per indifferenza. I grandi della terra a Londra hanno in queste ore evitato un fallimento che sarebbe stato per tutti drammatico. Sono state raggiunte le prime intese. Non siamo in grado di capire se basteranno perché troppo forti sono gli interessi nazionali. Lo vedo soprattutto nel fatto che, rispetto alle cifre che si dice di voler stanziare contro la crisi e per evitare i fallimenti di interi paesi, troppo poche sono ancora le risorse stanziate per quei paesi del terzo mondo, segnatamente per l’Africa dove si continua a morire di fame e di sete. Bisogna andare avanti contro i paradisi fiscali, estendere una moralità forte contro questa piaga dei super stipendi e dei bonus. Non è giusto pagare un manager, anche il più bravo del mondo, duemila volte il salario di un giovane apprendista o di un giovane operaio. Anche da noi, tra l’altro, con il compenso di 100 manager si possono pagare i salari di 10mila lavoratori. Un’Italia in cui 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese e dove circa 7 milioni, di cui il 60% donne, guadagna meno di 1.000 euro al mese. Cifra al di sotto della quale si trovano 8 milioni di pensionati. Allora si capisce perché quando abbiamo posto il problema di un limite, di un senso non imposto ma riconosciuto di solidarietà fiscale anche qui da noi, non abbiamo trovato risposte convincenti. Anche perché altri paesi hanno fatto la scelta che noi chiedevamo di fare al nostro governo. Non è stato simpatico vedere che sul tema dei tetti ai maxistipendi, un tema sollevato da capi di governo di paesi importanti, non ho colto quale fosse l’opinione, prima e non dopo, della nostra delegazione governativa impegnata nel vertice del G20. La dimensione morale della crisi non è un aspetto da sottovalutare. La speculazione, il profitto inteso come mezzo e anche come fine, l’assenza di regole e controlli ci hanno portato dove siamo arrivati. E molti, quasi tutti, pagano, paghiamo, per responsabilità di altri. E non penso solo ai lavoratori. In più, nessuno ci pensa oggi, ma il debito pubblico che salirà per effetto della crisi sarà un problema che peserà sulle nuove generazioni. E se dovesse ripartire l’inflazione questa colpirà i disoccupati, gli anziani, i redditi fissi. Porterà i governi a chiedere nuovi tagli sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola. Sta qui la vera immortalità di questa crisi internazionale. Si sente la mancanza oggi nel nostro paese di quelle figure, anche di stampo conservatore, che in altre occasioni della nostra vita repubblicana abbiamo incontrato, che si possano alzare e riconoscere, con la franchezza democratica necessaria, che la moralità di questa crisi pone alle classi dirigenti un sovrappiù di responsabilità. Nel racconto di Di Vittorio che la televisione ha voluto trasmettere il barone Caradonna, il latifondista che si opponeva alle proteste dei braccianti di Cerignola, dice a un certo punto ‘Mondo è e mondo sarà’. Riflettendo su questa frase me ne è venuta in mente immediatamente un’altra esattamente uguale. Quella che si trova nel Gattopardo: “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”. Cosa lega queste due espressioni? Conservare il proprio mondo. Conservare i propri privilegi. Conservare il proprio potere e lasciare fuori tutti gli altri. La storia del novecento, anche la nostra, è la sfida contraria: cambiare, includere, valorizzare le conoscenze e i saperi, affermarsi liberamente e responsabilmente e farlo restando tutti assieme. Per noi, anche qui oggi, non può essere ‘mondo è e mondo sarà’. Perché quel mondo non dà risposte a troppi e consente a pochi di arricchirsi alle spalle degli altri. Questa è la dimensione dei valori con cui vogliamo attraversare la crisi. Senza smarrire la speranza, senza disperdere la fiducia, convinti come siamo, che le nostre ragioni ci danno una buona ragione per stare in campo e cambiare quel mondo. Nei giorni precedenti due fatti, due incontri, mi sono rimasti impressi dentro e avverto il dovere di raccontarli. La prima: la faccia, l’espressione, l’incredulità triste di un precario che non sapeva giustamente rassegnarsi al fatto che con il primo di luglio non avrebbe più lavorato in quel luogo, in quell’ufficio, dove per anni aveva prestato servizio. Ho visto una persona ferita, umiliata, senza un perché. Il secondo. Una lettera di una giovane donna che ha scritto alla Cgil. “Mi rivolgo a lei perché non so se può esistere qualcuno in grado di aiutare me e quei giovani della mia età, intorno all’età intermedia dei trent’anni, dove dovremmo essere le colonne portanti del nostro paese ma non siamo che dei disperati. Non sto qui a scriverle per chiederle denaro ma solo per farle capire che persone come me avrebbero solo bisogno di fiducia, di stimoli, di incentivi, di risposte. Comunque stia tranquillo: starò qui con il mio misero lavoro in nero, sperando che un giorno mi paghino e cercherò di continuare a sorridere alla vita come ho sempre fatto”.
Ai tanti come lei, concludendo questa giornata, vorrei che assieme dedicassimo il senso e il valore della nostra manifestazione. Ai tanti che non hanno trovato mai o ancora un lavoro vero. Ai tanti ai quali la crisi non può togliere quello che in realtà non hanno mai avuto o non hanno ancora incontrato. |