Il Giorno: Rifare gli italiani, la missione della scuola
Sergio Zavoli
AFFIEVOLITOSI l'eco delle tonalità alte del dibattito politico, mi prendo l'azzardo di dire ciò che pure traspare da tutta la realtà nazionale: a rifare gli italiani (all'Italia provvederà la politica intesa nel suo senso più stretto) dovrà pensare, anzitutto, la scuola. Perché? Perché è lo strumento, il solo, che disponga di tutti i fattori, teorici e pratici, per essere ciò che dà vita alla prima forma di comunità, cui affidare il valore indiviso del volto e dell'animo nazionale; avviando, al tempo stesso, la formazione della società fatta di individui e di cittadini, cioè di bisogni e progetti personali e collettivi. Mai, dalla fine del secondo conflitto mondiale, si era manifestata una così urgente necessità di porre mano al rinnovamento dei criteri e dei principi in base ai quali modellare una pedagogia scolastica corrispondente alla realtà in cui la più grande agenzia che produca significati (la scuola, appunto) ha il dovere di agire. Neppure la grande agenzia televisiva, che con il decadere di tutte le altre (famiglia, scuola, media, partiti, chiesa) è oggi il collettore di ogni superstite fonte di identità sociale, ha la forza per costituirsi come fattore di regolazione in una materia culturale, civile, etica. Si può anzi azzardare che proprio l'incontenibile energia del mezzo televisivo sprigiona di per sé, paradossalmente, una quantità di messaggi contrari a una sintesi mediatica fondata sui valori che (in un regime democratico e in una logica di mercato) possono convivere solo a prezzo di continui compromessi. La stessa politica della tutela infantile rispetto alla TV, con le sue regole mai del tutto felicemente applicate, svuota di senso l'ipotesi di consegnare al medium elettronico il compito fondante, dunque pedagogico, di realizzare e favorire, per domani, la cultura delle tre C: conoscenza, consapevolezza e coscienza: primo, vero patrimonio educazionale di cui dispone un "potere collettivo" in grado di rappresentare il sentire e l'agire di una storia, di un'antropologia, di una civiltà nazionale! Il guasto, a veder bene, l'ha creato non tanto la scuola, quanto la società che l'ha prodotta; e lo si è visto quando è nata la stolta divisione della famiglia dalle regole della scuola. Da allora, il decadere di un'antica solidarietà ha spalancato le porte al succedersi delle trasgressioni, degli alibi e delle impunità. Un eccesso di patti incongrui tra l'istituzione e la sua deontologia ha fatto da sfondo alla comparsa di tutto ciò che una scuola degna di rispetto non può permettersi. Il bullismo, annidato nei contesti istituzionali (per esempio le caserme e i collegi) trova nella scuola odierna una situazione favorevole alle prevaricazioni, rigogliose ovunque si pratichi la tolleranza come forma di resa civile e di pigrizia sociale. Lo spettacolo insistito, ammiccante, corrivo, la rassegnazione al peggio, finché resistono scorciatoie d'impunità, l'uso della violenza nei suoi plagi quasi ordinari, e poi tutto il corteo delle volgarità ridotte all'usuale protervia delle intenzioni e dei modi: questo ed altro impongono che ci si fermi per decidere che la prima via da percorrere porta diritta a quel filtro che la gran parte della scuola non riesce più a essere; e qui mi soccorrono le parole lasciateci dal giovane e straordinario educatore forlivese, Lamberto Valli, che riferendosi alla scuola diceva "poi si comincia a vivere anche in un'altra casa, tua e degli altri, dove la famiglia si allarga e diventa la moltitudine degli uomini che un giorno vivranno, insieme, ciascuno con il suo talento e il suo avvenire, ma tutti con quello stesso bene alle spalle". Intanto, ci domandiamo dov'è il pericolo e non mi stancherò di ripeterlo: nella mancanza di percezione del pericolo. Eppure sono in atto grandi trasformazioni, in cui dover distinguere e scegliere sempre più in fretta. E ciò per non perdere l'identità di quel corpo civile e spirituale, che è la gens della latinità, madre del popolo di oggi. VIVIAMO in un Paese per tanti versi invidiabile, ma dove il prezzo da pagare a un'astratta, globale modernità sembra quello di dovere accettare, in cambio del massimo di convenienza personale, il minimo di giustizia e di sicurezza, di ordine e di rigore. Riusciamo a tenere insieme, con un conflitto mai esploso del tutto, lo Stato e l'antistato; releghiamo alla loro drammatica condizione di separatezza almeno tre regioni del Mezzogiorno mentre viviamo l'orgoglio di nazione europea emancipata da secoli di marginalità; ci affligge un debito pubblico enorme, e il pagamento dei suoi interessi contribuisce assai meno che in passato alla salvaguardia del ceto medio risparmiatore. Sono nel frattempo subentrate, con ben altro ruolo, le banche italiane e straniere mentre la grande crisi monetaria ed economica impostaci da un malinteso, sciagurato capitalismo ci vede tra le nazioni che patiscono lo sconquasso generato "dagli uomini in bretelle e pieni di cocaina che hanno governato il pianeta dai loft di Manhattan negli ultimi 25 anni", come duramente Massimo Gramellini descrive su La Stampa i grandi padroni della finanza egoista, sbugiardata dallo stesso sistema da cui promana. Sebbene poveri, e avari di risorse da investire nelle tecnologie del futuro, diamo prove di creatività inusuali per un Paese che, attardato da antiche e un po' stinte alterezze umanistiche, ha speso tanta parte del suo patrimonio intellettuale nella burocrazia e nelle professioni tradizionali; ci confrontiamo con i problemi di una classe operaia che ha smesso la tuta blu, ma vive lo spettro della cassa-integrazione; restiamo legati a modelli di vita qua e là prodighi fino all'insensatezza e ci trasciniamo la questione delle sicurezze sociali, soprattutto degli anziani, dei giovani, del lavoro e della produzione. Sani e ammalati allo stesso tempo, rinunciamo ogni giorno a un altro po' della nostra pericolante coscienza civile. Con i miliardi degli evasori, altro che tesoretto, rifaremmo le ossa al Paese; non oso dire la nostra "patria", neppure con la minuscola, da quando è diventata un vecchio modo di dire. È sopportabile che su venticinque milioni di contribuenti non superino le centomila unità coloro i quali denunciano un reddito superiore ai cento milioni? E quell'Italia sfuggente e nascosta deve accettare quest'altra, immobile e schedata, del reddito fisso: una sorta di sottosviluppo ormai connaturato al nostro sistema economico e sociale, frutto di molte stoltezze incontrastate. A forza di negarcelo, potrebbe aprirsi la grande questione di come intendere persino la democrazia. Orbene, la scuola che cosa insegna in proposito? È ancora sufficiente un pur nobile libretto di "educazione civica" o non servirà dotarsi di una mentalità che alle lavagne elettroniche in classe unisca un progressivo, ragionato inoltrarsi nella complessità del vivere d'oggi, sapendolo trasformare in vera e propria materia d'apprendimento? NON CI È BASTATO sapere che il punto più alto del disinteresse per come nel costume nazionale va progredendo ogni genere di licenza è un triste primato che proprio gli organi della scuola, a cominciare dagli insegnanti, sono stati i primi a denunciare? Proprio mentre si annunciano i nuovi traguardi della nostra democrazia, vorremmo ascoltare, tra i propositi, quello di rifare, anzitutto, il tessuto civile, culturale, spirituale del nostro spaesato Paese. Il filosofo Ernst Fischer ha scritto: «Inquietante è il crescere, in tutti gli ambiti culturali ed esistenziali, dell'indifferenza per la moralità laica di una società democratica. Proprio il concetto deformato di libertà (non quello astratto, ma quello assolutamente concreto della vita privata da non disturbare, legato alla massima del voglio vivere in pace), proprio questo scetticismo, non di rado giustificato, rende così difficile il superamento del senso di impotenza, e la conseguente passività, dell'individuo standardizzato». Ma da dove ricominciare se non dal punto più lontano dalla percezione dei doveri primari, condivisi e cruciali? Rifondare, oggi, vuol dire ridare spazio al loro primo fondamento, cioè alla scuola. Poi toccherà al resto, a tutto il resto. Perché non sia più possibile ripetere, con Ennio Flaiano, "tutto ciò che non so, l'ho imparato a scuola".