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Il lato oscuro dell'università. Vita, speranze e delusioni dei ricercatori precari

Una complessa ricerca incrociata sull'universo dei "non assunti". Solo pochissimi possono fare ricerca pura, spesso sono dei jolly indispensabili per il funzionamento degli atenei, alla fine l'assunzione arriva per un misero 6,7%. E nella vita privata...

10/07/2014
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la Repubblica

Cinzia Gubbini

Quanti sono i ricercatori precari nelle università italiane? Quanti anni hanno, da quali percorsi provengono? E ancora: quali aspettative hanno sul loro futuro? E, infine, tutti i precari sono uguali? La voglia di indagare in profondità il "lato oscuro" degli atenei italiani forse non poteva venire che a loro: i cosiddetti "precari della conoscenza". Non a caso l'indagine che per la prima volta cerca di incrociare i dati quantitativi e qualitativi sulle molte figure che compongono il mosaico dei "non assunti"  -  realizzata per conto della Cgil Flc e che verrà integralmente pubblicata a ottobre  -  si chiama "Ricercarsi" e porta la firma di cinque ricercatori, quasi tutti precari. Francesca Coin (l'unica con un tempo indeterminato), Orazio Giancola, Emanuele Toscano, Francesco Vitucci hanno meno di quarant'anni e, sono variamente impiegati nelle nostre università. "Volevamo capire in modo approfondito quali sono i percorsi di vita dei ricercatori italiani, e come vivono la loro situazione contrattuale", spiega Vitucci. Scoprendo anche cose affatto scontate.

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Tutti uguali, tutti diversi. La ricerca è composta di tre "step": un questionario diffuso on line che ha raccolto 1861 risposte, la raccolta di dati quantitativi attraverso il Miur sui contratti dal 2002 al 2012, e infine 40 interviste in profondità somministrate a precari della ricerca in 10 atenei italiani di diverse dimensioni, su tutto il territorio. Colpisce innanzitutto l'omogeneità di alcuni dati: il campione è diviso in modo quasi uguale tra uomini e donne (57% le donne) e praticamente identiche sono le fasce di età: fino a 30 anni il 18,9%, il 20,8% tra i 37 e i 40 anni e il 21,5% oltre i 40 anni. Chiaramente non si tratta di un campione rappresentativo, tuttavia la "spontanea" composizione di chi ha deciso di rispondere al questionario dà l'idea che all'università si può essere precari a tutte le età. Lo stesso vale per la distribuzione tra le facoltà. I ricercatori precari sono ovunque. Le facoltà scientifiche sopravanzano le altre solo di poco con il loro 29,7% (umanistiche 25%, socio-economiche 24,1%, cura 21.2%). Insomma, precari tutti uguali dentro l'accademia, ma diversi dai coetanei che scelgono altre strade. Il campione della ricerca ha un'età media di 35 anni e il 73% non ha figli. Un dato più alto della media italiana, già "rallentata" rispetto al resto d'Europa, visto che il primo figlio arriva a 32 anni. Evidentemente l'università non è un posto per genitori.

Supercompetenze. I ricercatori italiani si danno da fare, anche se la mobilità nella specializzazione non è altissima: il 73% ha conseguito un dottorato, ma solo il 6,2% all'estero e il 29,2% in un ateneo diverso da quello della laurea. Il 60% degli intervistati, comunque, ha avuto esperienze di studio all'estero e il 43% può vantare sia esperienze formative che di lavoro, il 18% del campione ha lavorato in atenei esteri.

Precarissimi. Ma le condizioni di lavoro offerte dai nostri atenei sono pessime. E soprattutto sono peggiorate negli ultimi anni. Attualmente circa il 50% dei ricercatori nelle università italiane ha un contratto a termine  -  dagli assegni di ricerca ai ricercatori a tempo determinato passando per i dottorandi. Nella curva temporale c'è una data che segna l'ascesa dei contratti atipici: è il 2008, anno di approvazione della legge 133 che ha contingentato le assunzioni a tempo indeterminato in alcuni settori pubblici, tra cui le università. Da allora a "esplodere" sono soprattutto gli assegni di ricerca, quelli cioè meno costosi ma anche meno tutelati. I contratti atipici sono quasi raddoppiati nelle università pubbliche e quasi quadruplicati in quelle private, anche se qui si usa di più il contratto a tempo determinato, forse perché è l'unico che consente di insegnare.

Tuttofare. In ogni caso non si guarda certo al tipo di contratto con cui si sta all'univesità per distribuire le mansioni. "Un ricercatore dovrebbe fare solo ricerca  -  dice Vitucci  -  invece è il jolly delle università: segue le tesi, anche quelle assegnate a altri, insegna. Addirittura a volte viene utilizzato per lavori extra accademici: dà una mano negli studi dei professori avvocati o medici". Solo il 3,1% degli intervistati dedica il proprio lavoro esclusivamente alla ricerca. E solo il 20% dichiara di non aver mai svolto lavoro non retribuito, mentre il 28,6% racconta che è capitato "spesso", percentuale di un punto più alta tra le donne.

Stabilizzati, quasi mai. Ma in quanti possono sperare, alla fine del lungo cammino, in una stabilizzazione? Praticamente nessuno. Secondo la stima dell'indagine meno del 6,7% è stato assunto negli ultimi dieci anni, mentre il 93,3% si è dovuto accontentare di contratti a tempo determinato o di assegni. E ovviamente c'è chi lascia: il 16% del campione ha deciso di gettare la spugna. Fuori dall'ateneo, è bene dirlo, c'è vita visto che il 45,4% dichiara di svolgere una professione "intellettuale e di elevata specializzazione". Il 34% tuttavia è disoccupato. Ad andarsene sono più le donne degli uomini, e sembra non essere ininfluente il contesto di provenienza visto che la percentuale di chi ha un padre disoccupato tra chi molla è del 35%. Il 50% se ne va perché non viene rinnovato il contratto, ma circa il 40% risponde di aver rinunciato perché non gli veniva data la possibilità di crescere profesisonalmente o a causa dell'insatabilità professionale.

Appassionati. Eppure, i ricercatori italiani amano il proprio lavoro. E l'analisi sui giudizi espressi dagli intervistati lascia di stucco: prevalgono parole come "stimolante", "impegnativo", "appassionante". Solo in seconda battuta si registrano aggettivi come "precario", "frustrante". "Questo dimostra che stiamo buttando nel secchio un patrimonio inestimabile  -  osserva ancora Vitucci - persone che abbiamo formato, che sono appassionate del loro lavoro, che potrebbero fare crescere la ricerca italiana, ma che non vedono prospettive". L'84,3% del campione ritiene che il proprio lavoro di ricerca sia influenzato neagtivamente dalla precarietà contrattuale, oltre il 50% non riesce a immaginare il proprio futuro professionale tra 10 anni e il 60% dei dottorandi pensa che dovrà andare all'estero per continuare a lavorare nella ricerca.