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Il Manifesto-I ragazzi non sono tabelline

I ragazzi non sono tabelline E' possibile valutare, e inchiodare a quelle valutazioni, i ragazzi da 3 a 18 anni? La riforma del governo Berlusconi questo vorrebbe fare, e ridurre gli insegnanti a es...

08/01/2002
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il manifesto

I ragazzi non sono tabelline
E' possibile valutare, e inchiodare a quelle valutazioni, i ragazzi da 3 a 18 anni? La riforma del governo Berlusconi questo vorrebbe fare, e ridurre gli insegnanti a esattori di un test infinito. Ma resta nelle mani dei docenti la possibilità di sperimentare forme libere e creative di conoscenza
GUIDO ARMELLINI

" Quelli che insegnano pedagogia all'università i ragazzi non hanno bisogno di guardarli in faccia. Li sanno a mente, come noi si sa le tabelline": così scrivevano i ragazzi di Barbiana. Sono passati più di trent'anni ma la definizione è sempre attuale. Così, nel passaggio dall'era Berlinguer all'era Moratti sono cambiati i nomi dei pedagogisti di fiducia dei ministri, ma la caratteristica segnalata dagli scolari di don Milani è rimasta invariata. Tra i progetti di riforma sfornati dai governi di centro-sinistra e di centro-destra ci sono, infatti, elementi di continuità (i cedimenti sulla laicità dell'educazione, i finanziamenti alle scuole private, la netta separazione tra istruzione e formazione professionale), e di discontinuità (il taglio apertamente classista del progetto Moratti); ma il denominatore comune più tenace è l'assoluta noncuranza per il carattere mutevole, imprevedibile, avventuroso delle relazioni che le e gli insegnanti instaurano ogni giorno nelle classi con le ragazze ed i ragazzi in carne ed ossa.
La scuola viene vista come un "sistema" da far funzionare col massimo di efficacia e di efficienza, un oliato meccanismo di trasmissione di conoscenze/competenze/capacità e di controllo della loro acquisizione, e non come una moltitudine di comunità viventi, ciascuna con la sua storia, le sue abitudini, i suoi conflitti, dove si incontrano esseri umani diversi per età, sesso, carattere, visioni del mondo, provenienze geografiche e culturali.
Nulla in contrario, naturalmente, sull'idea che una buona scuola debba essere ben organizzata. Ma un modello organizzativo e didattico che non tiene conto del carattere corporeo, sessuato, soggettivo dell'insegnamento e dell'apprendimento ha molte probabilità di produrre effetti controproducenti.
Un campo in cui la noncuranza per l'esperienza reale di insegnanti e studenti è particolarmente evidente è costituito dai progetti valutativi sfornati dai pedagogisti ministeriali. Eccone un esempio, tratto dal progetto elaborato dalla commissione presieduta da Giuseppe Bertagna per la ministra Moratti. Nel nefasto computo di "crediti" e "debiti" già introdotto dalla riforma precedente viene ora inserita una disinvolta equiparazione di giudizi tecnici e giudizi morali attraverso l'istituzione del "debito formativo" relativo al "comportamento", considerato di "pari peso" rispetto a quelli di profitto, "in nome del principio dell'inseparabilità tra logica ed etica". Bastano due debiti, di cui uno può riguardare, appunto, il comportamento, perché al termine di ogni biennio (dalla seconda elementare in su!) un bambino o una bambina ripetano l'anno.
A parte il fatto che non si vede come l'introduzione della ripetenza fin dai primi anni delle elementari possa favorire quella scuola "lunga, non concitata, senza la nevrosi dei risultati intermedi", di cui favoleggia il documento, bisogna domandarsi quale significato possa assumere questo provvedimento nelle menti di chi valuta e di chi è valutato. La ripetizione di un anno scolastico può, in certi casi, essere utile, se vissuta dallo studente come una possibilità di recuperare esperienze e conoscenze non pienamente metabolizzate. Ma acquista un significato diverso, e decisamente controproducente, se la valutazione morale si sovrappone a quella cognitiva, e la ripetenza si configura come una punizione: non sai la matematica, e in più sei un bambino cattivo; quindi meriti di essere bocciato!
Lo sfondamento dei confini tra diversi tipi di valutazione - che, come ogni buon insegnante sa, richiederebbero forme diverse e non standardizzate di giudizio e di approccio relazionale - è aggravato dalla presunzione che lo strumento del test sia in grado di misurare le più svariate caratteristiche cognitive, affettive, etiche, di un essere umano.
In un'appendice al documento, Giuseppe Bertagna si compiace del fatto che una scuola media da lui visitata disponga dei dati relativi alle prove di ingresso di ciascun alunno, riguardanti non solo "le abilità di base (numeriche, di studio, di ragionamento e di lettura)", ma anche "le dimensioni etiche, motorie, relazionali, creative, decisionali e della personalità".
Chi frequenta ogni giorno con rispetto e passione le persone giovani sa che la pretesa di poter misurare una simile gamma di attitudini e propensioni tramite una "prova di ingresso", che poi resterà agli atti come documento-base sul quale fondare l'azione didattica, è, oltre che insensata, prevaricatrice, per gli inevitabili effetti di banalizzazione e stereotipizzazione. Si aggiunga che ogni alunno, "dai 3 ai 18 anni", dovrà essere "accompagnato" da un "apposito portfolio delle competenze", che comprenderà, oltre alla scheda di valutazione, relativa ai crediti formativi, una "scheda di orientamento" contenente "prove scolastiche significative", "osservazioni dei docenti sui metodi di apprendimento del ragazzo", "commenti su lavori personali ed elaborati significativi", "indicazioni che emergono da un questionario attitudinale compilato da ciascun (sic!) studente", "qualità e attitudini del ragazzo, individuate negli incontri insegnanti-genitori, anche grazie all'aiuto di appositi questionari", "indicazioni che emergono da un progetto personale di vita, elaborato dallo studente e consegnato al docente".
Insomma la traduzione pratica del progetto Bertagna nella concreta vita scolastica comporterebbe, per gli insegnanti, una mole di lavoro burocratico e sanzionatorio senza precedenti nella storia della nostra scuola, che andrebbe inevitabilmente a scapito della relazione con gli studenti; e per gli studenti il peso di una valutazione onnivora e addirittura persecutoria, dominata dagli esiti nefasti dell'"effetto Pigmalione".
Indipendentemente dalle eventuali buone intenzioni, una scuola affetta da delirio di onnipotenza, animata dalla presunzione di poter misurare e certificare "tutto" di una creatura umana, finisce per usare la valutazione come un'arma puntata contro la privacy, la responsabilizzazione e l'autostima delle ragazze e dei ragazzi che la frequentano.
Nel movimento dell'"autoriforma gentile" abbiamo molto riflettuto sulla valutazione, in continuità con una tradizione di pedagogia non accademica, legata alla pratica quotidiana dell'insegnamento, che nelle scuole italiane è ancora viva e attiva, malgrado le direttive tecnicistiche e riduzionistiche provenienti dai vertici buro-pedagogici. Una valutazione che riconosce i suoi limiti e rispetta il mistero di ogni essere umano; che non valorizza solo ciò che ci fa uguali ma anche ciò che ci rende diverse e diversi; che non si basa esclusivamente su domande la cui risposta è nota in anticipo ma apre terreni di ricerca comuni a insegnanti e studenti; che non si sforza semplicemente di adattare le ragazze e i ragazzi a un sapere precostituito ma esplora i nuovi significati che le discipline assumono nell'incontro con le inedite domande di senso delle giovani generazioni. E così via.
Una simile idea della valutazione potrebbe stare dentro un progetto di riforma? Se per riforma si intende un insieme di direttive che pretendono di far funzionare la scuola come una macchina governata e controllata in forme gerarchiche, sulla base del trinomio mercato/tecnica/organizzazione, la risposta è no.
Bisognerebbe invece partire dalla scuola buona che già si fa, darle respiro, aiutarla a crescere, curare la qualità delle relazioni tra le persone che la frequentano, aprire spazi liberi di riflessione e di confronto, promuovere esperienze che si allarghino per contagio. Non l'ha fatto il governo di centro-sinistra, ed è impensabile che lo faccia il governo di centro-destra.
Ma, come ogni luogo d'incontro tra esseri umani, la scuola è un'occasione di scoperte impreviste, di avventure e disavventure culturali, di passioni e di conflitti, che nessuna normazione - burocratica o "manageriale" che sia - può neutralizzare del tutto. Attraverso i suoi percorsi può passare il peggio o il meglio della società: la trasmissione supina dei modelli di vita e di pensiero dominanti o la sperimentazione di forme libere e creative di conoscenza e di convivenza.
Credo che una parte risolutiva di questa scommessa resti nelle mani delle e degli insegnanti che, contrariamente ai pedagogisti accademici, "guardano in faccia" ogni giorno i ragazzi e le ragazze, col desiderio di lasciarsi insegnare qualcosa dalla loro inesauribile alterità