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Il Mese: Italiani nel mondo, così si sprecano i cervelli

Di Vincenzo Moretti

26/05/2008
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Wako, Tokyo. Fabio Marchesoni lo incontro appena arrivato al Riken (un istituto di ricerca giapponese di fama mondiale), dove ormai da diversi anni contribuisce alle attività del Digital Materials Laboratory diretto da Franco Nori. La reciproca curiosità, l’interesse, la voglia di conoscersi meglio è naturale in contesti di questo tipo. Già le prime amichevoli conversazioni suggeriscono il racconto: se fosse un film di Lina Wertmuller il titolo potrebbe essere Come perdere tre generazioni di ricercatori e scienziati in un colpo solo ed erudire pupi burocrati e contenti. Non è un film. Ma non mi lascio comunque scappare l’occasione.
Marchesoni è professore ordinario di Fisica all’Università di Camerino. Commendatore della Repubblica Italiana per meriti scientifici. Visiting Professor alla Loughborough University (Uk). È stato Fellow dell’American Physical Society (Usa), dell’Institute of Physics (Uk), dell’Alexander von Humboldt (D). Nel suo palmarès il Riken Eminent Scientist Award (2002), il Canon Foundation Award (2003), l’Alexander von Humboldt Award (2006), l’Outstanding Reviewer Award, Aps (2007).
Per cominciare mi spiega che fare ricerca in giro per il mondo fa bene alla ricerca. E ai ricercatori. Soprattutto a quelli che intendono farla a un certo livello. Ma il fatto importante è, aggiunge, che per noi italiani è una sorta di scelta obbligata. Perché all’estero si investe molto più che da noi. Perché diventano sempre più numerosi i paesi che per lanciare in tempi brevi progetti di ricerca avanzati vanno a caccia di docenti, ricercatori, scienziati con una certa esperienza, in grado cioè di guidare e far decollare gruppi di lavoro più giovani (con tutte le particolarità del caso, anche l’arrivo di Franco Nori al Riken risponde a questo tipo di logica). Scienziati e ricercatori italiani con queste caratteristiche è possibile trovarli in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna ma anche in Cina, in Giappone, a Taiwan, a Singapore. Hanno età diverse, tra i 40 e i 60 anni; potrebbero essere gli educatori, i leader, gli incubatori di gruppi di giovani ricercatori italiani e invece si ritrovano a svolgere questa stessa missione-funzione all’estero.
Marchesoni tiene a sottolineare come da molti punti di vista la sua storia sia assimilabile a quella di tanti altri. Si raggiunge una certa maturità, con annessi riconoscimenti internazionali, senza essere riusciti a trovare i finanziamenti necessari né per fare ricerca né per sostenere quegli studenti davvero meritevoli e capaci che si è riusciti ad allevare. Dopo anni di tentativi, ci si rende conto che insistere non è conveniente né per la struttura né per le persone che hai allevato e che rischiano di ritrovarsi a trentacinque, quarant’anni con uno stipendio di 1500 euro al mese. Questo è un punto sul quale forse varrebbe la pena fare una battaglia vera, sottolinea convinto: “Perché quando quelli bravi, proprio perché sono bravi, non ci stanno e se ne vanno, a quelli come me non resta da fare altro che individuare istituzioni straniere che siano in grado di farti fare quella ricerca che in Italia non puoi fare. Come? Mostrando interesse per il tuo lavoro, investendo le risorse necessarie a trasformare l’interesse in attività, assumendo giovani ricercatori. È quasi un problema di legittima difesa. L’Italia è il nostro paese e molti di noi, nonostante le offerte, non lo lascerebbero (abbiamo famiglie e rapporti sociali come tutti) se ci fosse un’alternativa. Il fatto è che a oggi rimanere in Italia vuol dire in molti casi «vivacchiare» per aspettare la pensione. E questo francamente non lo trovo dignitoso. Per darti un’idea per un fisico teorico come me oggi in Italia l’unica fonte di finanziamento disponibile ammonta, un anno sì e un anno no, a circa 80-100 mila euro. Sono 40-50 mila euro l’anno, di cui almeno la metà va in borse di studio; rimane una cifra di 20 mila euro che oggettivamente sono briciole per fare ricerca; un fisico sperimentale, che avrebbe bisogno di finanziamenti di parecchie centinaia di migliaia di euro l’anno, prende qualcosa di più di 80 mila euro, se va bene 120-140, sempre in due anni, che nel suo caso vanno via solo per le spese”.
Il risultato è che in pratica l’esperienza, il know how, le capabilities di questi ricercatori finiscono per essere messe al servizio dei giovani di altri paesi. “È esattamente questo il motivo per il quale ci prendono – riconosce Marchesoni –. Capita sempre più spesso di chiamare colleghi al cellulare e scoprire nel corso della conversazione che sono in Francia, in Germania, a Singapore. E tutti con lo stesso genere di appointment, contratti da business school della durata di due, tre mesi”.
Ci sono istituzioni straniere che hanno ideato tipologie di contratto specifiche, che a oggi l’Italia non è in grado di attivare, per esempio contratti per cinque anni che ti vincolano per due o tre mesi l’anno. “Per questa via l’istituzione fa un investimento finanziario equivalente a quello di un anno potendo contare sulle tue capacità, il tuo know how, il tuo sapere nel corso degli anni – sottolinea lo studioso –. Le persone, in particolare quelle che fanno il nostro mestiere, in cinque anni sviluppano in maniera significativa il loro bagaglio di conoscenze. All’estero se vali non hanno problemi a investire su di te. Si comincia con un ufficio. Poi si selezionano, sulle linee di ricerca che avvii con loro, giovani ricercatori che hanno voglia di sperimentare nuove vie. Te li affiancano. Creano un’interfaccia locale. Nel giro dei cinque anni ti ritrovi ad aver dato un contributo significativo alla costruzione di un gruppo che ormai dirigi da «remoto» e molto presto camminerà sulle proprie gambe. Le persone che hai diretto sono cresciute e tu hai la soddisfazione e la consapevolezza di aver impiegato al meglio quei mesi in cui ti hanno pagato per costruire un progetto di ricerca”.
Ma l’Italia può permettersi di regalare tutto questo? “Io credo sia davvero un peccato – risponde –. Così come è un peccato bruciare una generazione, quella che è stata allevata tra la fine degli anni settanta e ottanta con degli standard e delle aspettative molto elevate, che nulla avevano da invidiare a quelle del resto d’Europa e che oggi ha intorno ai 50 anni”.
Marchesoni sottolinea che come studente ha avuto le stesse risorse finanziarie dei suoi colleghi tedeschi o francesi:“La nostra è la generazione che per prima ha avuto il computer, che grazie ai propri maestri ha potuto viaggiare, costruirsi un curriculum internazionale e fare permanenze (non solo stage) all’estero. Adesso che potremmo ridare qualcosa d’importante ai nostri giovani non ci sono risorse e andiamo a fare questo lavoro di inseminazione e di sostegno alla crescita all’estero. Le possibilità sono due. O ti metti a fare il burocrate oppure diventi una specie di soldato di ventura e trovi le istituzioni che ti permettono di fare il tuo lavoro, quello vero. In Gran Bretagna negli anni ottanta era stato distrutto il sistema universitario. Ora lo si sta ricostruendo a tappe forzate e non a caso è pieno di quarantenni italiani, di nostri giovani che stanno diventando ordinari e offrono anche a noi più anziani posizioni come business school”.
La morale della favola? Oggi Marchesoni può andare due, tre mesi all’anno per i prossimi cinque anni a lavorare in Inghilterra e gli danno tutte le strutture e le risorse che gli servono per fare ricerca. Può decidere di fare la stessa cosa in altri paesi. Ma non può farlo in Italia. “In realtà ciò che ci motiva davvero – conclude convinto –, al di là dello stipendio, che in ogni caso nessuno ti toglie anche se fai il burocrate o ti metti là ad aspettare la pensione, è la possibilità di studiare realtà diverse dalla nostra, di competere con colleghi di altri paesi, di arricchire il nostro bagaglio di esperienze e di poterle trasmettere ai nostri giovani. Sono almeno dieci anni che in Italia tutto questo è diventato molto difficile, se non impossibile. Si sta sprecando una generazione. Lo trovo drammatico. E c’è anche di più. Qualunque governo nei prossimi dieci anni decidesse di investire sulla ricerca si ritroverà con il problema di non avere più non soltanto i giovani ricercatori, ma neanche gli educatori. Il sistema è regredito e rimetterlo in pista non sarà una cosa semplice. Certe cose non si improvvisano. Se oggi mi assegnassero un grande progetto in Italia, io stesso avrei difficoltà a gestirlo seriamente. Certo, potrei guardare a come fanno gli altri, ma ci vuole tempo per creare una propria cultura, una propria via, un proprio approccio. Anche i più attivi stanno perdendo la capacità di pensare in grande”.
La nostra storia potrebbe finire più o meno così: ci vogliono giovani ricercatori; ci vogliono gli educatori in grado di aiutarli a crescere, a diventare autonomi; bisogna creare l’ambiente sia a livello professionale che a livello di stili di vita. Il reclutamento va impostato, pianificato. Le grandi infornate non servono. Servono finanziamenti per l’attività di ricerca ordinaria. Serve gradualità, impegno, cura, scelte mirate che puntino a premiare i più bravi. A metterli in condizione di rimanere in Italia. A fare dell’Italia un paese interessante per i giovani ricercatori di ogni parte del mondo.