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Il nostro non è un Paese dove studiare di più

Nessuno sembra aver mostrato meraviglia per il crollo delle iscrizioni all’Università. Il calo infatti non è giunto inatteso.

21/02/2013
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ScuolaOggi

Nessuno sembra aver mostrato meraviglia per il crollo delle iscrizioni all’Università. Il calo infatti non è giunto inatteso.

Poco più di un anno fa, l’8 gennaio 2012, durante la festa del Tricolore a Reggio Emilia, il Presidente del Consiglio Mario Monti, ebbe a dire: “ Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media OCSE del 73%. E’ troppo poco, dobbiamo studiare di più”. Così riportava il Corriere della Sera di quel giorno. Il lungo articolo di Paolo Conti analizzava poi i dettagli che rendevano ancor più grave la segnalazione del Premier; se la media Ocse dei diplomati è infatti del 73%, è ben dell’85% in Germania, 88% in Canada, 89% negli USA. Ma è anche del 91% nella Repubblica Ceca, dell’89%dell’Estonia, dell’88 della Polonia.

In Italia dobbiamo scalare sino alla fascia dei giovani 19-25 anni, per trovare un 81% di diplomati.

Il nuovo Governo, in quella stessa circostanza, sviluppò alcuni pensieri interessanti. In particolare segnalò l’urgenza di intervenire sulla fascia alta della popolazione e nello stesso tempo di mettere mano a un piano di contrasto della dispersione scolastica, in particolare nelle aree del mezzogiorno.

Le cifre relative infatti sulle nuove generazioni, non devono ingannare. Segnano storicamente un progresso ma sono attraversate da contraddizioni profonde: il 20-25% dei ragazzi esce dalla scuola superiore senza alcun titolo contro una media europea del 10-15%.Per non parlare della oramai nota generazione neet,circa due milioni di giovani che non studiano e non lavorano.

Tutto ciò evidentemente segnala l’inadeguatezza dell’offerta formativa , in particolare in quel settore dell’istruzione e formazione professionale, ancora lontano da un assetto in grado di offrire una chance di qualità a una larga fascia di giovani. E’ cresciuta l’attenzione e gli interventi per l’istruzione tecnica e tecnica superiore ma questo indirizzo porterà buoni risultati se non sarà separato o peggio , pensato come alternativo, al settore di istruzione-formazione professionale. Tentazione questa, spesso ricorrente in Confindustria , come ricorrente è la polemica contro l’eccesso di iscrizioni agli indirizzi liceali.

Anche questa sarebbe una scelta miope perché noi non abbiamo bisogno “in sé” di ridurre gli iscritti ai licei ma di riqualificare anche la formazione liceale, togliendola dalle nebbie della tradizione gentiliana che continua a prevalere. E’ solo in quella tradizione che istruzione liceale e lavoro non si incontrano ed anzi si ignorano, Ma è proprio a questo approccio che bisognerebbe porre fine.

Amarthia Sen e Martha Nussbaunn non si stancano di ricordare ai Paesi dell’Occidente che proprio un nuovo modello di sviluppo economico richiede anche una solida e diffusa cultura umanistica, capace di alzare il livello di civismo della società e di fare i conti con l’innovazione nel mondo produttivo e delle tecnologie. Sempre che la società aspiri a realizzare queste nuove mete, ovvero se si affermano esplicite intenzioni politiche percepite come tali dai cittadini, per promuovere la cultura, il sapere, la qualità delle relazioni umane e civili, come obiettivo forte di una politica per il Paese. Perchè programmare a 14 o 19 anni un percorso universitario, è certo questione di spesa ( troppo cresciuta in questi anni e non compensata da significative misure di diritto allo studio) ma è soprattutto una scelta di prospettiva, un atto di fiducia verso un futuro di senso. Se viene meno questo orizzonte, se non c’è, non si percepisce un convincente progetto per il futuro, lo sguardo diventa corto e ripiega nelle scelte di breve periodo.

Tutte queste riflessioni potevano sembrare una buona traccia per un programma di governo chiamato a risollevare le sorti del Paese. Eppure di tutto ciò, o quasi, si è persa traccia. Si è persa nelle parole e nei propositi dell’attuale candidato premier Mario Monti ma francamente è anche difficile sfuggire a una sensazione di prevalente delusione per l’operato del Ministero dell'Istruzione.

Abbiamo avuto la sensazione di una gestione ministeriale che non è stata in grado di trovare un baricentro, una leva significativa , sulla quale fare perno per impostare un lavoro sia pure limitato da un breve orizzonte temporale..

. Certo, un impegno molto difficile, segnato dalla pesantissima eredità dei tagli Gelmini-Tremonti che hanno drenato 8 miliardi di euro nella scuola e da una congiuntura che per le note ragioni non lasciava grandi margini di spesa. Il Governo Monti ha attenuato l’eredità quel carico ma non è riuscito a trovare una linea che potesse, anche in prospettiva, rappresentare un nuovo corso di politica per l’istruzione, la formazione, l’Università. La stessa ostinazione a ricercare nella fase finale un segno del proprio mandato in quel concorso a cattedre, così improvvisato ed esposto a un contenzioso senza fine per le contraddizioni che lo stesso concorso ha aperto nella platea dei docenti precari, è parso infine un segno di ripiegamento delle proprie ambizioni e di debolezza strategica.

Forse riprendere in mano alcune linee programmatiche del Quaderno Bianco sulla scuola del 2007, avrebbe offerto un’altra opportunità. E nella fase iniziale, il progetto per il contrasto alla dispersione sembrava davvero indicare una reale possibilità di imprimere l’avvio di una significativa svolta nella politica scolastica. Poi tutto si è sfumato, troppo.

E oggi questi temi, così importanti per la vita del Paese, per il senso e la qualità della vita di giovani ed adulti, sembrano scomparsi da una campagna elettorale che lascia senza parole.

“Dobbiamo studiare di più” aveva detto solennemente il Presidente Monti. Ma queste parole sono scomparse dai programmi e per la verità, non solo da quelli di Monti.

Intanto viviamo in un Paese in cui oltre 50.000 edifici pubblici, chiamati scuole, restano chiusi per circa quattro mesi l’anno e spesso sono chiusi, ogni giorno, in orario pomeridiano e serale. Quanto costino al Paese quelle scuole chiuse ce lo ricordano i dati richiamati e le relazioni di merito della Banca d’Italia

Quanto ci costerebbe tenerle aperte con il concorso di risorse pubbliche, private, del volontariato per avviare una formazione permanente degli adulti, potrebbe essere una bella proposta di politica per il Paese. In parlamento, promossa dalla CGIL , con migliaia di firme della società civile, c’è una proposta di legge di iniziativa popolare che è rimasta nei cassetti.

Chissà che qualcuno non decida di riprenderla in mano, per il bene del Paese.

Dario Missaglia