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Il Piccolo: Università senza fondi

Un paese destinato al declino

09/08/2008
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Il Piccolo

Difficile dar torto al professor Francesco Peroni, rettore dell’ateneo di Trieste, quando lancia l’allarme sul destino dell’università. Tra cinque anni, ha detto, mancheranno risorse per pagare gli stipendi e il rapporto tra studenti e docenti peggiorerà. Nelle stesse ore il ministro responsabile dell’università Mariastella Gelmini offriva alla stampa una visione del futuro all’insegna di un ottimismo di matrice berlusconiana.
La Gelmini sosteneva che in virtù delle sue riforme questo settore strategico per il futuro dell’Italia diventerà “meritocratico, trasparente, eccellente e internazionale”. Grazie a quale strategia la signora Gelmini non lo ha però precisato, ma i dati non depongono certo a favore della sua tesi: in primo luogo è stato infatti deciso un taglio dei finanziamenti ordinari di portata a dir poco eccessiva, e poi il governo ha stabilito un blocco parziale del turn-over. Con il risultato che sino al 2011 ogni dieci docenti che andranno in pensione ne saranno assunti soltanto due. La facoltà concessa agli atenei di trasformarsi in fondazioni private non risolverà certo il problema, che anzi sembra inevitabilmente destinato ad aggravarsi.
A confermare le pessime condizioni di salute del nostro sistema di istruzione sono le cifre dell’ultimo rapporto Ocse (“Education at a Glance 2007) dove si legge che l’Italia spende per l’università una quota pari allo 0,8 del Pil contro una media dell’1,3 dei paesi avanzati, ovvero meno di ottomila dollari a studente a fronte di almeno undicimila del resto dell’Occidente. Nel 2005 c’erano 21,4 studenti per ogni studente (15,8 nelle altre nazioni prese in esame dall’Ocse) e peggio di noi fa solo la Grecia. Ha dunque ragione Francesco Ramella a sostenere, in un articolo uscito sul quotidiano “La Stampa”, che i provvedimenti dell’attuale esecutivo rappresentano un colpo mortale per gli atenei italiani e, soprattutto, denotano l’assoluta mancanza di consapevolezza dello stato penoso in cui versano a causa di politiche inefficaci e poco lungimiranti.
Per l’università, in Italia, spendiamo oggi poco, lo facciamo senza alcuna visione chiara del futuro e, soprattutto, sbarriamo la strada ai giovani talenti. Costretti molto spesso a emigrare per proseguire nelle ricerche iniziate durante il periodo del dottorato. La beffa si aggiunge così al danno, visto che sono altri Paesi a beneficiare delle somme, sia pur modeste, investite per formarli. Proprio il contrario di ciò che avviene altrove: nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti la gara per attirare cervelli dall’estero è durissima perché gli altri, a differenza di noi, hanno compreso da tempo che nell’epoca dell’economia della conoscenza vince chi riesce ad attrarre le intelligenze migliori.
Le misure decise e quelle annunciate condannano dunque l’Italia a un ulteriore declino sul piano internazionale. E certo non stupisce che una recente indagine della Goldman Sachs ci collochi entro pochi decenni addirittura al cinquantesimo posto nel mondo in termini di Pil dietro addirittura a Nigeria e Filippine. Ovvia conseguenza di un sistema dell’istruzione gestito in maniera pessima e incapace di favorire l’innovazione continua indispensabile per competere e per crescere. Se non ci sarà una rapida e netta inversione di tendenza forse sarebbe più utile e produttivo far studiare al di fuori dei confini i nostri ragazzi: costerebbe di meno e sarebbero formati da un personale docente meno anziano e più motivato. Del resto il sistema immaginato dalla signora Gelmini non offre alcuna prospettiva di futuro all’università. E allora meglio una morte rapida degli atenei (con relativa delocalizzazione dell’intera struttura) che una lunga e umiliante agonia.
Roberto Bertinetti