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Il Riformista: Guerra dei talenti? Magari qualcuno la combattesse

generazione muta, a proposito di Lobby

12/08/2006
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Il Riformista

GENERAZIONE MUTA. A PROPOSITO DI LOBBY DI ALESSANDRO DE ANGELIS

«Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, però che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi». Si sente nel limbo l'associazione dottorandi e dottori di ricerca Italiani (Adi) che cita i versi danteschi nel proprio sito tra la segnalazione di un libro sui «Cervelli in fuga» e uno sui «Cervelli in gabbia». Gabbia, fuga, limbo dantesco. C'è una raffinata rassegnazione nella percezione che ha di sé una categoria specchio di una generazione, certamente strategica per la ricerca e importantissima per il futuro del nostro paese. Per Augusto Palombini, responsabile nazionale dell'Adi, «Non esiste nessun paese civile in cui, a 35 anni e nel pieno della maturità intellettuale, gli studiosi non siano messi in condizione di fornire il proprio contributo all'università con soddisfazione professionale nell'ambito della didattica e della ricerca e con prospettive di carriera». Assegnisti di ricerca, contrattisti, docenti a contratto, borsisti, il quadro che ci viene dipinto è di un numero rilevante di precari della conoscenza che si trova in una sorta di area di parcheggio, un limbo appunto. «La nostra generazione sembra sconfitti prima ancora di essere messa nelle condizioni di giocare la partita» aggiunge Palombini.
Un sistema disincentivante che manifesta una cultura conservatrice e antimeritocratica. Perché talento e meritocrazia sono elementi che costituiscono un valore non solo per le persone detentrici ma anche per le nazioni che accolgono questi individui. «Magari ci fosse la guerra del talento, ovvero una competizione basata sulle qualità individuali nelle università e nella pubblica amministrazione in genere». Il confronto con il governo è già iniziato con una disponibilità di ascolto da parte del sottosegretario Modica, e la priorità da affrontare è «costituita dall'enorme numero di ricercatori non strutturati attualmente impiegati nelle nostre università nonché da quelli che vanno all'estero perché il sistema all'interno del quale operano in Italia non ne valorizza i meriti scientifici» dice Palombini, che ci fornisce dati, statistiche, documentazioni che mettono in luce come «la ricerca in Italia è portata avanti prevalentemente da personale precario, non strutturato». Insomma il sistema penalizza la generazione tra i 30 e i 40 anni. Il profilo di una generazione si intreccia con il futuro stesso della nazione sia sotto l'aspetto della sua crescita culturale che su quello della competitività economica. È per questo che a Lisbona i governi europei si impegnarono ad investire il 3% del Pil in ricerca entro il 2010 mentre il nostro paese investe attualmente attorno all'1%. Chiedono investimenti in ricerca e centralità dei concorsi questi precari della conoscenza, con una garbata lettera al ministro Mussi, molto documentata sui mali dell'università e sulle soluzioni da adottare. Una lettera che manifesta una cultura di governo più che di lotta. Infatti chiedono e propongono soprattutto regole, come ad esempio che la centralità del concorso coincida con la giusta valutazione dei curricula anche mediante un allargamento delle commissioni a esperti dall'estero per evitare meccanismi di cooptazione attraverso concorsi su misura.
La questione di fondo posta dai lavoratori non strutturati dell'università rimanda al tema della natura del conflitto nella nostra società. In mancanza di un disservizio da creare come nel caso dei tassisti, continuiamo a chiederci quali siano le forme di protesta di una generazione che non manifesta la propria voce nemmeno nella forma di una civilissima campagna di opinione. «Forse il punto è proprio questo» ci dice Francesco Grillo (un cervello quasi in fuga che vive tra Roma e Londra, laureato in Italia, ora insegna alla London School of Economics) responsabile di “Vision, The italian think tank”, associazione nata anche su questi temi che sta sviluppando iniziative che hanno come sfondo il futuro stesso della democrazia, «siamo una classe sotto molti punti di vista ma siamo proprio noi i primi a non percepirci come tale». C'è dunque, senza voler scomodare le categorie del vecchio Marx (la classe in sé che non è ancora classe per sé), un problema di consapevolezza e di percezione di un obiettivo comune. I professionisti del futuro non fanno né classe né lobby e forse il problema sta oltre che nella loro intangibilità politica nell'assenza di un mercato vero nel nostro paese. «Serve il conflitto» dice Grillo «il paese ce la fa e noi ce la facciamo non con la retorica del paese unito ma solo se ci sono attori in conflitto, scontro, competitività in un quadro di regole che valorizzino i meriti. Autoetichettarsi come giovani non basta». Insomma la guerra del talento la vogliono tutti, ma il punto è che chi dovrebbe volerla di più, cioè i talenti, non la dichiara.