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Il successo dei ricercatori italiani (ancora costretti a espatriare)

Aumentano quelli che ottengono fondi europei: 18 su 28 sono donne

23/12/2014
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Corriere della sera

Fosse per loro, in Italia ci tornerebbero subito. «Anche domani». Ma messe da parte le ragioni del cuore, tocca fare i conti con la realtà. E la risposta è soltanto una: «Se le cose non cambiano, restiamo dove siamo».
Basta sentire alcuni dei ricercatori italiani all’estero, freschi vincitori di una borsa da 1,5 milioni di euro (per cinque anni) del Consiglio europeo della ricerca. Oltre tremila progetti, 328 quelli selezionati e un fondo complessivo di 485 milioni di euro. La Germania batte tutti. Seguono Regno Unito, Francia e Olanda. L’Italia è nona.
Quello che colpisce è il rapporto tra chi decide di utilizzare i fondi in Italia e quelli che li portano altrove. Se i vincitori connazionali sono 28, qui ne restano dieci. Gli altri se ne vanno. In Germania su 68 partono in 21, in Francia su 36 emigrano in cinque. L’unica nota positiva sono le ricercatrici italiane. Se nel 2013 quelle vincitrici erano quasi quanto i connazionali uomini (8 contro 9), quest’anno li hanno sorpassati (18 a 10).
Una di queste è Silvia Vignolini. Trentatré anni, ha studiato Fisica dello stato solido a Firenze e dopo un dottorato si è interessata a come manipolare il trasporto della luce. Lavora da cinque anni all’Università di Cambridge, nel Regno Unito, e al dipartimento di Fisica si concentra sulla propagazione della luce nei materiali naturali. Un ambito che può portare, tra le altre cose, «alla creazione di coloranti naturali, senza più ricorrere ai pigmenti tossici».
«In Italia tornerei anche domani — dice Vignolini —, ma non ci sono le condizioni». I problemi? Almeno due. Il primo: i soldi. «Negli atenei europei, ma non in quelli del nostro Paese, se ti presenti con 1,5 milioni di euro di fondi l’università ne aggiunge altri». Il secondo: l’approccio accademico. «In Italia non c’è possibilità di carriera, non hai sufficiente libertà nella ricerca scientifica e quando la fai sembra che ti stiano quasi facendo un favore».
Un elemento, quest’ultimo, che condivide anche Michela Di Virgilio. Trentanove anni, la ricercatrice si è laureata a Bologna in Biotecnologie farmaceutiche e dopo un periodo all’Istituto nazionale dei tumori si è trasferita negli Usa da dove è riuscita a prendere anche un dottorato all’Università degli Studi di Milano in «Scienze genetiche e biomolecolari».
Di Virgilio studia i meccanismi di riparazione del Dna quando viene danneggiato. E dopo averlo fatto alla Rockefeller University di New York da tre mesi è al Max Delbruck Center for Molecular Medicine di Berlino. Il ritorno in Europa è dettato da ragioni «sentimentali»: «Volevo stare più vicina alla mia famiglia», racconta. Ma l’Italia, destinazione naturale, è stata scartata perché sarebbe stato d’ostacolo al suo lavoro. «Nel nostro Paese ci sono delle isole di ricerca fenomenali, ma in generale c’è un sistema che non è molto competitivo e gli atenei sono poco internazionalizzati», dice lei. Per non parlare delle strutture («A Berlino ho ben due uffici») e dello staff: entro pochi mesi dovrà arrivare a gestire sette persone. Le prime due sono state già selezionate. «Ho ricevuto 170 candidature e ho individuato 15 aspiranti». Con ognuno di questi c’è stata un’ora di colloquio su Skype e la «rosa» si è ridotta a cinque. «Li ho fatti venire qui con il mio budget lavorativo, e alla fine ne ho presi due». Uno di loro è italiano, ma più della nazionalità — assicura — «ha pesato il curriculum».
Stefania Milan, 35 anni, ha sempre la valigia pronta, ma un unico obiettivo: tornare in Italia. Il suo campo d’interesse sono i «big data», quelli che — tanto per intenderci — hanno fatto vincere due volte le elezioni americane a Barack Obama. Il suo progetto ha base all’Università di Tilburg, in Olanda. «Mi interessa capire come cambia la partecipazione delle persone alla cosa pubblica con le nuove tecnologie».
Un’idea che però vorrebbe sviluppare qui. Per questo si è messa in contatto con un ateneo italiano. «Ma l’unica cosa che riescono a offrirmi sono cinque anni da ricercatrice precaria. Passato quel tempo dovrei ricominciare tutto daccapo. Sarebbe un gran peccato perché alla fine io mi sono formata qui anche con i soldi degli italiani e sento che qualcosa bisogna restituire alla collettività. Ma non a queste condizioni».
@leonard_berberi