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Imparare tra colleghi

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26/04/2002
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Imparare tra colleghi
Intervista a Glauco Santagostino, Irre Lombardia

Un piccolo, ma non poi così piccolo, progetto sperimentale che ha in sé tutti gli elementi per scardinare dinamiche obsolete. Che fare se gli studenti di fronte all'insuccesso scolastico alzano le mani? Che fare se cresce la loro emarginazione culturale? Che fare se la risposta è sempre: tanto non serve a niente? Un progetto sperimentale nazionale - peer education - punta tutto sulla forte partecipazione personale, per scoprire che i limiti esistono e che imparare si può.

Che cos'è il progetto "peer educator"?

Si tratta di un progetto di matrice europea che, partito quattro anni fa a Cremona, si è piano piano esteso a tutto il territorio nazionale, arrivando a coinvolgere circa 150 scuole. L'investimento, sia in termini di finanziamenti, sia in termini di coinvolgimento e energie, da parte del ministero è stato ingente. L'intera operazione veniva monitorata da un Centro interuniversitario che raggruppava La Sapienza di Roma, la Cattolica di Milano, l'Università di Padova e di Firenze.

Qual è l'idea originaria?

"Peer" in inglese significa "pari": alla base del progetto quindi vi è una modalità nuova, tutta da sperimentare e verificare, di trasmissione di sapere, da pari a pari, appunto, non da un docente a un discente, o da un adulto a un adolescente. Questo tipo di modalità è stata utilizzata in Europa soprattutto in progetti legati alla prevenzione della devianza. Alla base vi era un documento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che denunciava il fallimento di tutta la comunicazione da adulto a giovane in materia di prevenzione della devianza. Si è quindi provato ad immaginare modalità diverse, che avessero più possibilità di fare presa sui ragazzi. All'IRRE abbiamo pensato di utilizzare questa stessa metodologia per coinvolgere gli studenti in un processo di apprendimento di competenze sociali. Voglio sottolineare che quella in cui ci siamo imbarcati è una sfida, che non ci sono riflessioni teoriche in merito, né fino ad ora, valutazioni approfondite e statisticamente significative delle esperienze realizzate.

Come si inserisce questa esperienza in questo momento di riforme e contro-riforme?

Riforma dei cicli e autonomia sono il suo contesto naturale, diciamo. L'articolo 3 della riforma, infatti, prevedeva il coinvolgimento dello studente nel processo di apprendimento. Non dimentichiamo che il concetto di base della riforma era che la scuola non fornisce insegnamento, ma favorisce apprendimenti: una rivoluzione copernicana. In questo senso, l'esperienza dei peer educator era sicuramente inserita in un contesto adeguato, poteva, come sperimentazione, fornire elementi interessanti e diventava una strategia utile per rendere gli studenti partecipi e creatori dell'identità della loro scuola.

Vorrei riuscire a immaginare una lezione - ammesso che di lezione si possa parlare - organizzata in questo modo. Concretamente cosa accadeva?

No, non si può parlare di lezioni, così come non si può parlare di materie. Ed è proprio questo il punto. L'area di attività prevalente è stata quella della comunicazione, tra studenti, e tra studenti e adulti. Può sembrare paradossale, ma all'interno della scuola c'è bisogno di imparare a parlarsi. Neanche la comunicazione tra ragazzi deve essere data per scontata: ci sono logiche di bande, logiche di quartiere che rendono la comunicazione molto complessa e rischiosa soprattutto nei primi due anni delle superiori. Per quel che riguarda i rapporti con insegnanti e altri organismi scolastici, il problema è quello della rappresentatività. I rappresentanti di classe non si sentono in realtà rappresentanti di nessuno, la loro figura è molto debole: si tratta di trovare forme nuove per dare peso alla presenza e al ruolo degli studenti nelle scuole.

Qual è il ruolo del pari in tutto questo processo?

C'è un arretramento della figura dell'adulto; il ruolo di insegnante viene rimpiazzato da uno studente che ha seguito un precedente percorso di formazione specifico, su cui quindi la scuola ha investito parecchio. I rappresentanti di classe hanno seguito un corso di formazione di tre giorni, con incontri con psicologi e gruppi di lavoro, su temi come la gestione dei conflitti, la gestione dello stress, l'organizzazione di iniziative, l'empatia. Il loro compito principale inizialmente è stato proprio quello di riportare questa esperienza alla classe.

Il protagonista quindi è il peer educator?

Sì, bisogna dire che se non sono certi i risultati ottenuti sulle classi, sicuramente il peer educator ha goduto di una esperienza veramente formativa. Bisogna considerare però che negli anni i rappresentanti sono stati sempre diversi, e che quindi all'interno di una stessa classe 6 persone hanno potuto fare questa esperienza: 6 alunni sono circa un quarto di una classe, una percentuale che può essere significativa, influire e determinare cambiamenti nelle dinamiche di rapporto, di comunicazione, di apprendimento e partecipazione. Non sempre questo avviene, ci sono stati casi in cui il pari non veniva riconosciuto, o veniva rifiutato. Come dicevo però si tratta di processi davvero molto lunghi.

Le reazioni degli studenti in genere quali sono state?

Dalle verifiche che stiamo facendo la risposta è sempre positiva. C'è molto entusiasmo, fare esperienze partecipate, cioè esperienze che ci si inventa, in cui si è coinvolti totalmente, dà motivazione. Questa non è una cosa da poco nella scuola di oggi, anzi, riuscire a motivare i ragazzi è il problema più grande della scuola.
I ragazzi oggi sono culturalmente emarginati, queste esperienze invece possono rimettere i ragazzi in comunicazione con oggetti culturali complessi per arrivare a superare la banalizzazione dei linguaggi che sono soliti usare - i messaggi sul telefonino, la chat - e delle situazioni che vivono - lo stadio, la banda. Dalle schede che abbiamo fatto compilare ai ragazzi che hanno preso parte al progetto, emerge un dato davvero significativo: molti hanno scritto "abbiamo capito quali sono i nostri limiti". La portata di una scoperta come questa è enorme, perché se si scopre di avere dei limiti, di conseguenza si scopre che si può imparare, che ci sono cose da imparare, si impara che imparare ha un senso e che può rivelarsi utile. I ragazzi credono di sapere tutto: questo non serve, questo è noioso, questo serviva una volta' Se però li metti davanti a uno spazio vuoto, non sanno da che parte cominciare: sono abituati a usare prodotti finiti, non a inventare, a creare, a mettersi in gioco. Incontrare una difficoltà per loro è una risorsa ed è la partecipazione in prima persona che lo consente.

Quali sono stati invece i problemi più grossi che avete incontrato nel gestire questo esperimento?

Si è trattato di una scommessa ambiziosa, condotta, come sempre, con pochi mezzi e con un limite forte: quello temporale. Ripeto: queste sono cose che danno risultati soltanto a lungo termine, sono processi lenti. La resistenza del corpo docente, che non è pronto ad affrontare una nuova cultura pedagogica, è un problema serio, ma resistenza la fanno anche gli studenti. Mettere in discussione dei modelli consolidati, per quanto ci si renda conto che sono ormai sorpassati e inadeguati, costa fatica a tutti. Partecipare attivamente per gli studenti è molto più impegnativo, soprattutto quando l'esperienza degli anni di scuola precedenti, è di segno opposto.

Parliamo di questa resistenza forte da parte della categoria degli insegnanti'

Queste sono pratiche che destabilizzano per tempi e modi. La scuola non è ancora in grado di accoglierle. Finché sono cose "extracurriculari" - cioè se non intaccano la struttura profonda, il tran tran di lezioni, verifiche, interrogazioni, programmi da portare a termine - vanno bene, proprio perché di fatto non hanno nessun peso, come che so io, i corsi di teatro' Ma se non hanno peso, se non entrano nel curriculo, non riescono ad attivare i meccanismi per cui sono stati pensati . Un'esperienza del genere non può essere valutata in termini di nozioni apprese - almeno non per ora - ma, come dicevo prima, sviluppa esperienze positive sul piano dell'emarginazione. È su questo che gli insegnanti hanno difficoltà secondo me, ma è da qui che la scuola deve ripartire.
La categoria degli insegnanti, poi, sta velocemente invecchiando; cresce la differenza d'età e cresce la stratificazione delle esperienze, la disponibilità al cambiamento invece diminuisce.

In che modo esperienze di questo tipo possono aiutare il processo di riforma della scuola?

Io credo che si debba prendere coscienza che il vecchio sistema non funziona più, che non dà più risultati. Il modello autoritario, fondato sull'autorevolezza degli insegnanti e delle discipline e sull'autoritarietà dei modelli, non regge. L'unico elemento di "persuasione" che aveva a disposizione era la paura dell'insuccesso scolastico. Dopo un brutto voto a scuola, un tempo, noi ci sentivamo costretti a recuperare e ci impegnavamo per raggiungere per lo meno la sufficienza. Oggi non è più così. Oggi l'insuccesso scolastico viene vissuto dai ragazzi come una sconfitta personale molto pesante, eppure, paradossalmente, non fanno nulla per recuperare. Alzano le mani. Il problema è che si sentono fuori dalla società. La scuola per loro è una specie di dazio che devono pagare. "Vado a scuola perché mi ci mandano". La pulsione di morte è molto forte; lo è sempre negli adolescenti, ma io trovo che sia decisamente cresciuta negli ultimi anni. Per tornare alla domanda, penso che esperienze di questo genere sia molto importanti, che debbano essere tenute in considerazione. Certo, non siamo in grado di dire, nello specifico, quali risultati la modalità di comunicazione tra pari dà nell'apprendimento di nozioni, ma questo è un lavacro a cui la scuola deve rendersi disponibile.
Bisogna mettersi in testa anche un'altra cosa e cioè che nella scuola nulla può avvenire d'imperio. Non basta fare la riforma da un punto di vista legislativo o burocratico e sperare che si materializzi: se gli studenti e gli insegnanti e i presidi e il resto del personale non è d'accordo, non la condivide, non passerà, rimarrà lettera morta. Tutto si riduce ad una burocratizzazione ulteriore: è molto facile nella scuola, proprio per i meccanismi su cui si basa, che tutto si risolva in una produzione di "carte", carte in più o carte scritte diversamente, senza che la sostanza dei rapporti, dei contenuti, dei messaggi cambi davvero.

Come spiega lei il momento di estrema difficoltà che sta vivendo la scuola?

Prima la scuola era coerente per linguaggio e valori con i suoi committenti sociali - le famiglie, le aziende, la società; questi committenti le assegnavano un ruolo preciso e la scuola, nello svolgere il suo compito, non era isolata. Oggi alla scuola si delegano i compiti di formazione più diversi, senza che ci sia una vera coerenza tra questi compiti e la società che li assegna. Spesso sono compiti dalle direzioni centrifughe. Si chiede alla scuola di fare "educazione alla legalità" in un paese dove fino a qualche anno fa si parlava della mafia come di uno stato nello stato, e di fare "educazione all'ambiente" quando fuori nessuno pensa che davvero, o agisce come se davvero credesse che l'ambiente è un valore da difendere: ma ci rendiamo conto? Come può fare la scuola - da sola - a proporre questi temi, a destare attenzione verso questi temi, quando tutto all'esterno va nella direzione opposta?
Il problema è che non sappiamo più qual è il mandato sociale della scuola.


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