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Dove va il tirocinio universitario? Ne parliamo con Franco Frabboni 1. Quali sono i punti di forza, secondo lei irrinunciabili, della formazione universitaria degli insegnanti così come si è conf...
Dove va il tirocinio universitario? Ne parliamo con Franco Frabboni
1. Quali sono i punti di forza, secondo lei irrinunciabili, della formazione universitaria degli insegnanti così come si è configurata in questi anni nel corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria?
I punti di forza, sul piano del profilo professionale, sono quelli che riguardano un po' tutte le professioni della scuola, compresa la secondaria: un insegnante deve essere competente nell'ambito della propria disciplina e sul campo dell'interdisciplinarietà, deve saperla insegnare e quindi avere una buona padronanza dei ferri del mestiere della didattica. Deve anche sapere creare un ambiente ricco sul piano emotivo ed affettivo. Deve essere in grado di ascoltare, per così dire, il cuore degli allievi, comprendere ed interpretare le loro esigenze anche sul piano umano: è questo il 'cartello pedagogico' della formazione degli insegnanti.
Per questo motivo non siamo disponibili, come pedagogisti, ad un ritorno all'indietro come sembra invece condurci la cattiva interpretazione che si dà dell'art. 5 della legge 53. Non basta cioè padroneggiare una disciplina per saperla anche insegnare. Il rischio che si corre oggi è un ritorno alla scuola prefigurata da Giovanni Gentile.
2. Che cosa cambia nelle ipotesi prefigurate dall'Art. 5 della L. 53/2003, con particolare riguardo alla bozza del decreto attuativo, presentato alla stampa dal MIUR nel luglio scorso e non ancora passato alle commissioni parlamentari? Può descrivere, in questa cornice, il senso del tirocinio e la diversa configurazione che andrebbe ad assumere se venisse confermata l'impostazione del decreto attuativo dell'art. 5 della L. 53/2003 prevista dalla bozza?
L'art.5 è di per sé un buon articolo. L'articolato della legge sugli insegnanti è a mio avviso positivo. Il problema è che i decreti attuativi tendono a snaturarlo. Non si prefigura, in essi, una classe apposita per quanto riguarda la formazione degli insegnanti. Le classi di insegnamento su cui sono costruiti i Corsi di Laurea sono attualmente 104 e comprendono tutti gli ambiti della formazione accademica. Noi sosteniamo che occorrerebbe aggiungerne uno e arrivare a 105. Sarebbe necessario cioè un comparto di corsi specifico per gli insegnanti.
Invece i decreti prevedono ad esempio che per la secondaria (inferiore e superiore) la formazione specifica all'insegnamento sia effettuata all'interno delle lauree specialistiche o disciplinari. Tali facoltà non paiono tuttavia essere compiutamente in grado di assolvere questo compito. A questo va aggiunto che si prevede che molta parte dei crediti (e quindi delle discipline di insegnamento) siano decise dalle singole facoltà. Tutto questo crea una sorta di insegnante arlecchino, poiché ogni facoltà disegna tale profilo a piacere, ne esce una sorta di 'spezzatino' di progressioni privo di solide basi comuni.
3. Quale ruolo giocheranno le"strutture di ateneo e d'interateneo", previste dall'art. 5 della L. 53/2003, organismi deputati all'organizzazione del tirocinio, in collaborazione con le istituzioni scolastiche, sedi dello stesso?
Il tirocinio è uno dei momenti didattici fondamentali ed è stato istituito rispettivamente nel 1998 che con il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e nel 1999 per quanto riguarda la SIS (Scuola di Specializzazione per l'insegnamento Secondario). Questi due percorsi universitari hanno messo al centro, oltre che l'acquisizione delle competenze nelle discipline o nei campi trasversali delle discipline e delle metodologie per l'acquisizione di competenze didattiche (i laboratori, le didattiche disciplinari) il tirocinio che rappresenta appunto il momento dell'acquisizione delle competenze 'indirette' (che possiamo anche chiamare relazionali) come capacità di simulare situazioni che già prefigurano una dimensione professionale. In questo senso il tirocinio rappresenta un momento delicato ed importante.
L'articolo 5 presenta qui invece un difetto. Si tratta forse dell'unico difetto, poiché per il resto ci appare come un attimo articolo. E' quello di prevedere che il tirocinio debba essere effettuato dopo la fine del percorso universitario.
Un tirocinio perciò non più coordinato dall'università ma dagli uffici scolastici regionali e dalla scuola in quanto tale. Un tirocinio conseguentemente un po' selvaggio, senza una progettualità.
Il patrimonio di esperienza sul tirocinio, acquisito dal 1998, è importantissimo perché offre l'occasione alle università di predisporre ed attuare dei modelli di grande interesse: non si tratta soltanto di osservare i bambini in una classe, di interagire con essi, di costruire dei progetti, ma di tutto l'insieme. Per queste ragioni siamo decisamente contrari al fatto che il tirocinio venga portato oltre l'abilitazione e quindi non più in una situazione universitaria degli insegnanti.
Se il tirocinio fosse affidato in carico alle strutture di ateneo e di interateneo, cadrebbero le riserve a cui facevo più sopra riferimento. Fermo restando che il tirocinio deve essere effettuato durante il corso di laurea è evidente che queste nuove strutture, credo, debbano essere le nuove sedi di coordinamento di programmazione delle forme di tirocinio che le singole facoltà che formeranno gli insegnanti - sono molte le facoltà coinvolte, quasi una quindicina - è evidente che deve essere una struttura di ateneo.
4. Veniamo ora al ruolo del supervisore di tirocinio nel processo di formazione dei futuri docenti: qual è il suo punto di vista?
Il supervisore ed il tutor sono state figure fondamentali nella sperimentazione dal 1998. I tutor sono gli insegnanti che accolgono gli studenti che si sono immessi nei percorsi della formazione degli insegnanti: si tratta quindi di figure di docenti in servizio disponibili ad accogliere i tirocinanti ed a seguirne i progetti.
I supervisori sono invece insegnanti distaccati all'università a cui è stato affidato il coordinamento e la conduzione dei laboratori e dei seminari del tirocinio. È evidente che non potevano essere figure interne all'università, poiché già coinvolte pienamente nella didattica universitaria. Queste figure si sono sempre più attivate e professionalizzate, tant'è che oggi costituiscono un patrimonio fondamentale per l'università e per la scuola. Secondo il Ministero tutti costoro dovrebbero essere rimandati a casa e questo rappresenterebbe la disgregazione di un capitale pedagogico e scientifico che negli anni i supervisori hanno via via accumulato. Il mio auspicio è che, anche eventualmente rinvigorito con altre forze fresche (ad esempio con altri comandati) questo impianto deve essere mantenuto perché ha permesso, per la prima volta nella storia dell'Università del nostro paese, di realizzare un vero rapporto fra università e scuola militante. Si è trattato e si tratta di un rapporto organico e sistematico.
Invece nel passato si è assistito ad un'università disinteressata, un po' distaccata e miope nei confronti della scuola. Da parte sua, anche la scuola si è a volte rinchiusa in se stessa, intimorita e indisponibile alle presenze universitarie. Invece attraverso la figura dei supervisori si era rotto in qualche modo un tabù.
5. Che cosa augura alla scuola italiana in merito alla formazione iniziale dei docenti?
Finché non si risolve l'antica patologia dei precari, è inutile parlare di scuola di specializzazione di formazione universitaria degli insegnanti. La formazione universitaria degli insegnanti è in grado di superare l'attuale stallo generato dal 'numero chiuso', e cioè della costruzione di percorsi universitari di un numero di futuri insegnanti pari al fabbisogno reale di quella determinata regione, risolvendo l'annoso problema del precariato. I precari (attualmente sono migliaia e sono coloro che hanno fatto anni e anni di supplenze, sono spesso persone che hanno anche una certa età e quindi hanno tutti i diritti di essere immessi nella scuola) dovrebbero avere il diritto di prelazione.
Il mantenimento di questa onda lunga di precari fa sì che i giovani non si iscrivono all'università perché hanno di fronte il cielo nuvoloso di un'uscita dalla stessa università senza un posto di lavoro. La capacità di assorbimento della scuola, anche rispetto al turn over, non può essere così massiccio e risulta evidente che tutti i posti disponibili sono assorbiti dai precari. Se non si risolve il problema dei precari è inutile che si costruiscano i percorsi universitari.
C'è inoltre il problema della programmazione regionale. Questo è un punto un po' oscuro: non è facile prevedere come andrà a finire la devolution per quanto riguarda la scuola, ma è indubbio che non si possono costruire le mappe del fabbisogno regionale. Una regione non è in grado di offrire ai propri giovani la possibilità di entrare nel mondo del lavoro della scuola se poi le emigrazioni da alcune regioni del nostro paese sono tali per cui tutti i posti vengono occupati non permettendo ai locali (i residenti nella regione stessa) di entrare.
Ci basti un esempio. All'università di Bolzano - Bressanone si iscrivono alla scuola di specializzazione molti studenti provenienti da regioni del centro e del sud del paese e non permettono ai residenti dell'Alto Adige di entrare perché hanno dei punteggi di base superiori (sono sposati, hanno figli, ecc.). Non si tratta di problemi secondari. Non sono risolvibili semplicemente affermando che il paese è unico.
Un ultimo problema, sul quale anche qui esprimiamo un parere duramente negativo, riguarda l'ipotesi, di provenienza ministeriale, che una volta conseguita l'abilitazione e forse anche l'anno aggiuntivo (non è chiaro che si faccia perché ha costi rilevanti), usciti dall'università i giovani laureati, sia provenienti dalla facoltà di Formazione di Scienze della Formazione Primaria, sia della SIS, usciti dall'università con l'abilitazione, dovrebbero effettuare un anno di formazione - lavoro aggiuntivo prima di essere assunti