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L’anomalia italiana: al lavoro soltanto un ragazzo su cinque

Oltre il 40%, ci dice l’Istat. Un numero enorme, ma che nasconde una realtà ben nota: sono pochi i giovani italiani che lavorano (poco più del 18%), o che cercano un’occupazione

02/10/2013
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Il Messaggero

L’ANALISI
ROMA Alessandro D’Arcangeli studia Ingegneria Energetica (gli mancano 10 esami), e lavora in un bar di Vitorchiano con un contratto di apprendistato. Ma aspetta che lo licenzino da un momento all’altro perché gli hanno chiesto di fare un orario spezzato che gli impedirebbe di continuare a studiare e di seguire i suoi hobby: il canto e gli amici. La cosa non gli va. Così anche lui rischia di andare a ingrossare le file di quei giovani entro i 25 anni che sono disoccupati. Oltre il 40%, ci dice l’Istat. Un numero enorme, ma che nasconde una realtà ben nota: sono pochi i giovani italiani che lavorano (poco più del 18%), o che cercano un’occupazione. Da noi non c’è la tradizione di avvicinarsi al lavoro fin dall’adolescenza e il caso di Alessandro, che invece tenta di conciliare lavoro e studio, è abbastanza raro. Tanto che se si trascura il ”tasso di disoccupazione”, per vedere quanti sono effettivamente i disoccupati rispetto al totale della popolazione, si scopre che i giovani disoccupati italiani sono solo l’11% rispetto a tutti i loro coetanei, circa 667 mila. Meno degli inglesi (il 12,4%, ma a fronte di un 47% che lavora), e molto meno di spagnoli (16%), greci (16%) e Irlandesi (oltre il 12%). Molti di più però della Germania, dove il 46,6% dei giovani lavora ed è disoccupato solo il 4%. Ma in Germania c’è una tradizione di scuole di formazione professionale di ottimo livello.
O IL LAVORO O LO STUDIO?
«E’ chiaro che c’è stato un peggioramento del dato dovuto alla crisi, ma non è quello che preoccupa - dice il professor Giuseppe Bertagna, professore all’Università di Bergamo, grande esperto di pedagogia e formazione - Quello che preoccupa di più è che in Italia tutti i ragazzi a 15-16 anni hanno imparato che chi studia non lavora, e chi lavora non è capace di studiare». La grande divaricazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale sembra il maggior dramma del nostro mercato del lavoro. «I lavoratori italiani sono fuori dalla formazione - insiste Bertagna - Noi spendiamo tanto tempo ed energie per orientare le persone dopo che hanno studiato. Invece la scuola dovrebbe formare l’individuo prima, anche attraverso l’esperienza di un lavoro». E quell’individuo, lasciato un lavoro dovrebbe avere le capacità e le competenze per reinventarsi. «Come fecero gli operai di Fabriano negli anni 60, quando furono licenziati dalle loro aziende e crearono il polo degli elettrodomestici», racconta Bertagna. Allora in Italia funzionava la mobilità sociale che invece ora è bassissima.
NEET
Ma questo non dovrebbe essere un problema per uno come Alessandro, che ha sempre lavorato e studiato. Piuttosto, ben più grave è che la nostra scuola non consideri lavoro e studio come attività profondamente legate. E che molti ragazzi italiani lascino i libri senza essere accompagnati nella formazione: tra i 15 e i 29 anni uno su quattro (il 23,9%, con punte del 35% al Sud) non studia e non lavora. Sono 2 milioni e 250 mila i Neet (not in employment, education or training), una fetta molto più alta di quei 667mila ”tecnicamente” disoccupati. E decisamente più preoccupanti, proprio perché di loro non ci si preoccupa.
Angela Padrone
 


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