L'estero chiama gli studenti, ma la scuola italiana non risponde
Sono i professori stessi a non promuoverla e solo i presidi sono più ottimisti, secondo una ricerca promossa da Intercultura. C'è ancora un 60% di insegnanti che non parla una parola d'inglese, mentre un +109% di ragazzi (dal 2009) sono partiti per esperienze scolastiche fuori dall'Italia
Alessandra Borella
Se ci fosse una materia "estero", sarebbero i prof a essere asinelli. Scuola bocciata in "apertura". Di aule e confini. E non dagli studenti. Sono proprio i docenti stessi ad affibbiarle un 5. Non grave, ma sempre insufficiente. Questo il voto in pagella 2015 dell'Osservatorio nazionale sull'internazionalizzazione delle scuole italiane e la mobilità studentesca promosso di Intercultura, fondazione che organizza scambi ed esperienze interculturali inviando ogni anno circa 1.800 ragazzi delle scuole secondarie a vivere e studiare all’estero e accogliendo nel nostro Paese un migliaio di giovani di ogni nazione.
I dati, elaborati da Ipsos, mostrano anche che i presidi, invece, sono più fiduciosi degli insegnanti: il 65% dà un voto tra 7 e 10. Comprensibile, se si considera che la responsabilità dei presidi sull'efficienza dell'istituto che dirigono diventa sempre più manageriale con la riforma della "buona scuola": hanno tutto l'interesse a valutare positivamente ciò che accade nel "loro giardino". I prof, sul piede di guerra per un'autonomia che diminuisce, invece, colgono la palla al balzo per protestare. Tra marzo e maggio 2015 sono stati intervistati in tutta Italia, nelle diverse tipologie di istituti d’istruzione secondaria superiore, 480 docenti con questionari online e 63 dirigenti scolastici con questionari telefonici. La ricerca è stata presentata al ministero dell'Istruzione.
Scuola bocciata in internazionalizzazione: i docenti italiani le danno un 5,1 in pagella. Sospesa tra tradizione e innovazione, italianità e globalizzazione, pur consapevole dell’importanza dell’apertura oltre confine, quella italiana è una scuola generalmente restìa al cambiamento, così come lo è la maggior parte del suo corpo docenti. E’ quanto emerge dalla ricerca 2015 dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca promosso dalla Fondazione Intercultura presentata al Ministero dell’Istruzione. Ecco le infografiche che ne riassumono i punti principali
Secondo i docenti intervistati, solo il 39% dei propri colleghi sa esprimersi in inglese a fronte di un 61% (quindi quasi due su tre) che non sa comunicare in questa lingua. Il 17% sa il francese, l‘8% lo spagnolo e il 4% il tedesco. Alla richiesta di auto valutarsi, il 25% dichiara di avere una conoscenza molto buona di almeno una lingua: escludendo l’inglese, è il 12% a conoscerne molto bene almeno una. Per quanto riguarda le lingue extraeuropee, solo l’1-2% degli intervistati ha qualche nozione di lingue come il russo, l’arabo o il cinese.
La versione dei prof. Secondo i docenti la scuola ideale dovrebbe offrire loro le condizioni e le risorse per lavorare al meglio: due su tre (il 61%) chiedono autonomia e flessibilità (32%) mentre, per un docente su quattro (24%) la necessità primaria è l'aggiornamento perché la scuola sia al passo con la società; un altro 10% preferirebbe avere maggiori riconoscimenti, dal proprio ruolo a quello economico. I presidi, dal canto loro, ritengono che la riforma della scuola in atto, garantendo loro l'autonomia di cui essi sentono il bisogno, migliorerà anche il processo di internazionalizzazione (lo afferma il 73% dei Presidi). Gli insegnanti rimangono scettici: solo il 40% ritiene che la riforma aiuterà le scuole ad assumere un profilo più internazionale, mentre addirittura il 27% è di parere completamente opposto. Professori internazionali: sono solo il 18% della classe docente.
Guardando lo spaccato delle età, si nota che i docenti più giovani (fino ai 44 anni) hanno alle spalle un periodo all’estero medio-lungo maggiore rispetto alle altre fasce di età (22% rispetto, ad esempio, al 15% di chi ha tra i 45 e i 54 anni). Se invece osserviamo chi partecipa ad attività internazionali più brevi, come corsi di aggiornamento o accompagnamento a progetti dedicati agli studenti, la forbice tra le età si riduce. A parteciparvi sono, pressoché in eguale misura, gli insegnanti fino ai 54 anni, mentre rimangono più fuori dai giochi i docenti più anziani.
Potenzialmente "international". Gli insegnanti che hanno investito in esperienze continuative come l'insegnamento all'estero o collaborazioni con docenti di altri Paesi sono solo il 18% del totale, mentre c'è un significativo 60% del campione di professori intervistati, rappresentativi del corpo docente italiano, che non ha nel suo curriculum formazione ed esperienze internazionali e che è tuttora ancorato a un modo classico di concepire la scuola, basato più sul possesso della materia di studio che sull'esperienza sul campo. Esiste un altro 22% di insegnanti che ha un "potenziale di internazionalità", perché ha partecipato a corsi di lingua e ha coinvolto i propri studenti in progetti all'estero come gli scambi di classe o i gemellaggi.
Studenti globetrotter. Dall'altra parte della barricata, invece, ci sono gli studenti che, con la complicità dei genitori, sempre di più vogliono correre, per arricchire il proprio curriculum scolastico e umano con un periodo di studio all'estero (la crescita di chi ha aderito a questi programmi è stata pari a un +109% tra il 2009 al 2014, anno in cui sono partiti 7.300 adolescenti per un periodo compreso tra i tre mesi e l'intero anno scolastico.
Local o no. Ecco l'identikit. Non c'è una grossa differenza di età, genere, provenienza geografica tra i docenti "internazionali" e quelli definiti dalla ricerca come "local". I primi hanno in media 47 anni (quindi non sono necessariamente i più giovani), i secondi 50 anni, sono equamente distribuiti in tutta Italia con punte, per quanto riguarda il primo profilo, in Lombardia e Puglia, per due terzi sono donne, così come lo è l'intero corpo docente. Gli internazionali sono soprattutto i docenti di lingue, ma più della metà di questi non ha effettuato esperienze all'estero di lungo periodo. I prof internazionali hanno iniziato fin da giovani a lavorare alla loro formazione estera: il 49% ha frequentato brevi corsi da studente (12% tra i "local"), il 36% ha partecipato alla mobilità studentesca di lungo periodo, ad esempio Erasmus o l'anno all'estero durante le superiori (solo l'8% i local), il 27% ha lavorato all'estero prima dell'insegnamento (un piccolo 4% tra i local).
Effetto estero. Diversamente dai docenti local, gli "internazionali" si percepiscono più aggiornati (36% vs 23%) e innovativi (26% vs. 13%), maggiormente inclini a sperimentare metodi di insegnamento alternativi. Gli insegnanti "local", invece, pur descrivendosi come docenti propositivi (28%), sono meno innovativi (13%). Se nella vita extra-scolastica sono persone aperte alle diversità ma che si sentono più a loro agio nel proprio contesto culturale, a scuola rispecchiano appieno l'immagine classica del docente: una figura stimolante (29%) ed esigente (31%), ma che fa fatica ad avere uno sguardo globale e a riconoscere l'importanza di una formazione internazionale (solo l'1% si sente "internazionale").
Vita di classe. Nel complesso, la scuola italiana e il suo corpo docenti continuano a presentarsi con un'immagine piuttosto tradizionale sia in termini di metodo d'insegnamento: la lezione frontale è la norma e, dati anche i tanti vincoli (programma, risorse a disposizione) a cui sono sottoposti tutti i professori, la sperimentazione ricopre comunque un ruolo marginale all'interno dell'attività didattica. È la solita vecchia diatriba tra teoria e pratica, tra studio e attività di gruppo, tra la scuola pubblica italiana forgiata da Gentile e quella americana dell'Attimo fuggente. Tra le versioni di greco e gli stage in azienda. Prima ancora di questo, però, e prima della formazione di giovani cittadini europei, e del mondo globalizzato, c'è da capire come mai ci si laurea pensando che Hitler sia morto negli anni Ottanta, che Enrico Berlinguer sia un attore, che Macerata sia in Trentino e che il congiuntivo sia un vezzo desueto.