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L'estero chiama gli studenti, ma la scuola italiana non risponde

Sono i professori stessi a non promuoverla e solo i presidi sono più ottimisti, secondo una ricerca promossa da Intercultura. C'è ancora un 60% di insegnanti che non parla una parola d'inglese, mentre un +109% di ragazzi (dal 2009) sono partiti per esperienze scolastiche fuori dall'Italia

02/10/2015
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la Repubblica

Alessandra Borella

Se ci fosse una materia "estero", sarebbero i prof a essere asinelli. Scuola bocciata in "apertura". Di aule e confini. E non dagli studenti. Sono proprio i docenti stessi ad affibbiarle un 5. Non grave, ma sempre insufficiente. Questo il voto in pagella 2015 dell'Osservatorio nazionale sull'internazionalizzazione delle scuole italiane e la mobilità studentesca promosso di Intercultura, fondazione che organizza scambi ed esperienze interculturali inviando ogni anno circa 1.800 ragazzi delle scuole secondarie a vivere e studiare all’estero e accogliendo nel nostro Paese un migliaio di giovani di ogni nazione.

I dati, elaborati da Ipsos, mostrano anche che i presidi, invece, sono più fiduciosi degli insegnanti: il 65% dà un voto tra 7 e 10. Comprensibile, se si considera che la responsabilità dei presidi sull'efficienza dell'istituto che dirigono diventa sempre più manageriale con la riforma della "buona scuola": hanno tutto l'interesse a valutare positivamente ciò che accade nel "loro giardino". I prof, sul piede di guerra per un'autonomia che diminuisce, invece, colgono la palla al balzo per protestare. Tra marzo e maggio 2015 sono stati intervistati in tutta Italia, nelle diverse tipologie di istituti d’istruzione secondaria superiore, 480 docenti con questionari online e 63 dirigenti scolastici con questionari telefonici. La ricerca è stata presentata al ministero dell'Istruzione.

Scuola bocciata in internazionalizzazione: i docenti italiani le danno un  5,1 in pagella. Sospesa tra tradizione e innovazione, italianità e globalizzazione, pur consapevole dell’importanza dell’apertura oltre confine, quella italiana è una scuola generalmente restìa al cambiamento, così come lo è la maggior parte del suo corpo docenti. E’ quanto emerge dalla ricerca 2015 dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca promosso dalla Fondazione Intercultura presentata al Ministero dell’Istruzione. Ecco le infografiche che ne riassumono i punti principali

Lost in translation. Voto positivo alla qualità dell'insegnamento (6,2) da parte dei docenti (e ci si stupirebbe se votassero negativamente il proprio stesso lavoro); coraggiosi però nel bocciare la capacità di accoglienza e valorizzazione degli studenti stranieri (5,8), il grado di insegnamento delle lingue straniere (5,4), la capacità di formare cittadini europei (5,3), l'apertura a collaborazioni con scuole estere (5,1), la predisposizione al cambiamento (5,0), il sostegno ai programmi di mobilità individuale degli studenti (5,0), il grado di partecipazione ai programmi internazionali (4,9). La bocciatura più sonora la merita la conoscenza (anzi, non conoscenza) delle lingue straniere da parte dei prof non di lingua: 4,2. Il 57% dei prof si auto accusa, valutando la propria capacità troppo bassa.
L'estero chiama gli studenti, ma la scuola italiana non risponde

Secondo i docenti intervistati, solo il 39% dei propri colleghi sa esprimersi in inglese a fronte di un 61% (quindi quasi due su tre) che non sa comunicare in questa lingua. Il 17% sa il francese, l‘8% lo spagnolo e il 4% il tedesco. Alla richiesta di auto valutarsi, il 25% dichiara di avere una conoscenza molto buona di almeno una lingua: escludendo l’inglese, è il 12% a conoscerne molto bene almeno una. Per quanto riguarda le lingue extraeuropee, solo l’1-2% degli intervistati ha qualche nozione di lingue come il russo, l’arabo o il cinese.

La versione dei prof. Secondo i docenti la scuola ideale dovrebbe offrire loro le condizioni e le risorse per lavorare al meglio: due su tre (il 61%) chiedono autonomia e flessibilità (32%) mentre, per un docente su quattro (24%) la necessità primaria è l'aggiornamento perché la scuola sia al passo con la società; un altro 10% preferirebbe avere maggiori riconoscimenti, dal proprio ruolo a quello economico. I presidi, dal canto loro, ritengono che la riforma della scuola in atto, garantendo loro l'autonomia di cui essi sentono il bisogno, migliorerà anche il processo di internazionalizzazione (lo afferma il 73% dei Presidi). Gli insegnanti rimangono scettici: solo il 40% ritiene che la riforma aiuterà le scuole ad assumere un profilo più internazionale, mentre addirittura il 27% è di parere completamente opposto. Professori internazionali: sono solo il 18% della classe docente.

L'estero chiama gli studenti, ma la scuola italiana non risponde

Guardando lo spaccato delle età, si nota che i docenti più giovani (fino ai 44 anni) hanno alle spalle un periodo all’estero medio-lungo maggiore rispetto alle altre fasce di età (22% rispetto, ad esempio, al 15% di chi ha tra i 45 e i 54 anni). Se invece osserviamo chi partecipa ad attività internazionali più brevi, come corsi di aggiornamento o accompagnamento a progetti dedicati agli studenti, la forbice tra le età si riduce. A parteciparvi sono, pressoché in eguale misura, gli insegnanti fino ai 54 anni, mentre rimangono più fuori dai giochi i docenti più anziani.

Potenzialmente "international". Gli insegnanti che hanno investito in esperienze continuative come l'insegnamento all'estero o collaborazioni con docenti di altri Paesi sono solo il 18% del totale, mentre c'è un significativo 60% del campione di professori intervistati, rappresentativi del corpo docente italiano, che non ha nel suo curriculum formazione ed esperienze internazionali e che è tuttora ancorato a un modo classico di concepire la scuola, basato più sul possesso della materia di studio che sull'esperienza sul campo. Esiste un altro 22% di insegnanti che ha un "potenziale di internazionalità", perché ha partecipato a corsi di lingua e ha coinvolto i propri studenti in progetti all'estero come gli scambi di classe o i gemellaggi.

Studenti globetrotter. Dall'altra parte della barricata, invece, ci sono gli studenti che, con la complicità dei genitori, sempre di più vogliono correre, per arricchire il proprio curriculum scolastico e umano con un periodo di studio all'estero (la crescita di chi ha aderito a questi programmi è stata pari a un +109% tra il 2009 al 2014, anno in cui sono partiti 7.300 adolescenti per un periodo compreso tra i tre mesi e l'intero anno scolastico.

Local o no. Ecco l'identikit. Non c'è una grossa differenza di età, genere, provenienza geografica tra i docenti "internazionali" e quelli definiti  dalla ricerca come "local". I primi hanno in media 47 anni (quindi non sono necessariamente i più giovani), i secondi 50 anni, sono equamente distribuiti in tutta Italia con punte, per quanto riguarda il primo profilo, in Lombardia e Puglia, per due terzi sono donne, così come lo è l'intero corpo docente. Gli internazionali sono soprattutto i docenti di lingue, ma più della metà di questi non ha effettuato esperienze all'estero di lungo periodo. I prof internazionali hanno iniziato fin da giovani a lavorare alla loro formazione estera: il 49% ha frequentato brevi corsi da studente (12% tra i  "local"), il 36% ha partecipato alla mobilità studentesca di lungo periodo, ad esempio Erasmus o l'anno all'estero durante le superiori (solo l'8% i local), il 27% ha lavorato all'estero prima dell'insegnamento (un piccolo 4% tra i local).

Effetto estero. Diversamente dai docenti local, gli "internazionali" si percepiscono più aggiornati (36% vs 23%) e innovativi (26% vs. 13%), maggiormente inclini a sperimentare metodi di insegnamento alternativi. Gli insegnanti "local", invece, pur descrivendosi come docenti propositivi (28%), sono meno innovativi (13%). Se nella vita extra-scolastica sono persone aperte alle diversità ma che si sentono più a loro agio nel proprio contesto culturale, a scuola rispecchiano appieno l'immagine classica del docente: una figura stimolante (29%) ed esigente (31%), ma che fa fatica ad avere uno sguardo globale e a riconoscere l'importanza di una formazione internazionale (solo l'1% si sente "internazionale").

Vita di classe. Nel complesso, la scuola italiana e il suo corpo docenti continuano a presentarsi con un'immagine piuttosto tradizionale sia in termini di metodo d'insegnamento: la lezione frontale è la norma e, dati anche i tanti vincoli (programma, risorse a disposizione) a cui sono sottoposti tutti i professori, la sperimentazione ricopre comunque un ruolo marginale all'interno dell'attività didattica. È la solita vecchia diatriba tra teoria e pratica, tra studio e attività di gruppo, tra la scuola pubblica italiana forgiata da Gentile e quella americana dell'Attimo fuggente. Tra le versioni di greco e gli stage in azienda. Prima ancora di questo, però, e prima della formazione di giovani cittadini europei, e del mondo globalizzato, c'è da capire come mai ci si laurea pensando che Hitler sia morto negli anni Ottanta, che Enrico Berlinguer sia un attore, che Macerata sia in Trentino e che il congiuntivo sia un vezzo desueto.