L’Ilva sia la prima sperimentazione del green new deal di cui tanto si parla
Dal Blog di Andra Ranieri sull’Huffington post.
Ero a Genova, prima da sindacalista poi da assessore, quando si decise di superare l’area a caldo dell’acciaieria di Cornigliano. Dopo anni di conflitto fra le ragioni del lavoro e quelle della vivibilità del territorio. Ci vollero anni, ma alla fine vinsero le ragioni del movimento delle donne di Cornigliano, spesso mogli e figlie di operai, che non sopportavano più le polveri dell’acciaieria sui panni stesi ad asciugare e soprattutto nei loro polmoni, e in quelli dei loro figli. Genova fu costretta a fare i conti con la fine di uno sviluppo industriale che le affidava il compito di produrre la base materiale per l’economia del nord ovest, l’acciaio che a Milano e a Torino sarebbe diventato lavatrici, frigoriferi, automobili al tempo in cui sembrava infinita la crescita dei beni di consumo durevole.
Quel compito d’ora in poi l’avrebbe svolto Taranto, quasi in solitudine, per l’insieme della industria italiana. A Genova sarebbe rimasto il “freddo”, la lavorazione di secondo livello e non inquinante dell’acciaio che da Taranto sarebbe arrivato.
Chi sostiene che non si può far chiudere l’ILVA di Taranto per ragioni ambientali, che non è buon ecologismo spostare le produzioni inquinanti, di cui l’industria del Nord ha bisogno, in qualche Sud del mondo senza controlli e senza diritti, e che bisogna vincere qui la sfida di tenere insieme lavoro e ambiente, produzione di acciaio e salute, dice cose condivisibili ma omette di dire che quando decidemmo di chiudere il caldo a Genova, in qualche modo pensammo a Taranto come la nostra Africa, come il posto in cui la fame di lavoro e di reddito avrebbe permesso quello che a Genova n on era più possibile, e spostammo al Sud la contraddizione che non eravamo più capaci di governare. Facendo finta di non vedere quello che l’acciaio aveva già provocato su quella terra, i danni enormi al territorio e alla salute delle donne, degli uomini, dei bambini di Taranto.
E ancora oggi dentro la crisi dell’ultimo privato chiamato a scongiurare la crisi dell’acciaieria fa impressione il venir meno di ogni considerazione nei discorsi dei protagonisti nazionali e della grande stampa di qualsiasi considerazione del peso che in salute e vite umane ha sopportato Taranto per produrre l’acciaio indispensabile alla industria del nostro Paese. E di leggere la contraddizione fra lavoro e ambiente come una partita tutta politica, l’ennesima contraddizione fra PD e 5 stelle. Poi il Presidente Conte va a Taranto e prima di entrare in fabbrica si trova davanti madri di bambini malati e morti di cancro, e scopre e ci fa scoprire che la contraddizione attraversa non solo gruppi diversi, ma le persone stesse, come quel padre operaio che si vergogna davanti al suo bambino che il suo lavoro può fare ammalare.
Lo sviluppo industriale diversificato, la nuova imprenditorialità sul territorio, che secondo l’ala più illuminata del governo e delle Partecipazioni Statali di allora, avrebbe dovuto accompagnare la costruzione di un impianto industriale più grande della città, non c’è mai stato. C’è solo un indotto di mono committenti che hanno vissuto e vivono esclusivamente delle commesse dell’acciaieria. Una integrale e senza vie d’uscita monocultura dell’acciaio. Senza che si provasse nemmeno a coniugare quel mega investimento a qualche traccia si politica industriale che potesse portare ad una diversificazione produttiva. Il risultato è che c’è solo acciaio, e di solo acciaio vive la possibilità di andare a lavorare e di guadagnarsi il pane. E la gente di Taranto si trova a dover mettere sui piatti della bilancia due pesi che dovrebbero essere incomparabili tra loro, il lavoro e la vita. “Il cancro viene dopo, e io ho bisogno di lavorare adesso” ha detto un giovane operaio a qualche intervistatore a caccia di disperazione.
Se quella acciaieria è necessaria all’intero sistema industriale italiano, hanno ragione il presidente Emiliano, e il sindaco e il vescovo di Taranto a chiedere che l’Italia ricompensi Taranto, prima di tutto pensando, se si decide di salvare l’acciaieria, a come fare in modo che quella produzione smetta di distruggere ambiente e persone.
Non è stata questa la preoccupazione principale nel decidere l’esito della gara che ha assegnato ILVA ad Arcelor. L’elemento decisivo è stata la maggior offerta economica di Arcelor rispetto alla cordata concorrente. Non venne nemmeno presa in considerazione la necessità che ci fosse qualche segnale di riconversione produttiva e di differenziazione rispetto al ciclo infernale cokeria―agglomerato- altoforno, ponendo come vincolo che una parte di produzione avvenisse attraverso l’elettrico e utilizzando materiale di ferro pre ridotto. Si scelse secondo la linea che aveva contraddistinto quasi tutte le privatizzazioni all’italiana. Liberarsi dei costi, ricavare il prezzo più alto possibile dalla cessione, nessun cenno di una politica industriale intelligente, se non quella degli acquirenti, italiani e stranieri, a proprio vantaggio.
Alessandro Leogrande, un intellettuale tarantino impegnato per gran parte della sua breve vita a trovare le ragioni per tenere insieme lavoro ed ambiente, in un articolo dell’ottobre 2014, oggi raccolto nel libro “Dalle macerie”, ci spiegava, già allora, come Arcelor avesse come interesse principale evitare che l’acciaieria andasse in mano ai concorrenti, e come comunque quel piano industriale fosse basato sulla continuità di un sistema produttivo insostenibile, che oltre tutto dichiarava di essere in grado di mantenere inalterati i livelli occupazionali solo quando la produzione avesse raggiunto gli otto milioni di tonnellate, un livello disastroso per l’ambiente e al salute, anche investendo sul risanamento tutti i miliardi promessi. Del resto credo sia evidente che senza cambiare il modo di produrre non c’è risanamento possibile. Se il bagno è allagato, prima di asciugare con gli stracci si chiude il rubinetto. Il piano di risanamento di Acelor, approvato dal governo Gentiloni e poi dal Conte 1, prova ad asciugare con gli stracci, ma non riduce nemmeno, anzi aumenta, la quantità d’acqua che esce dal rubinetto. Furono queste anche le obiezioni che la Regione Puglia fece inascoltata già in occasione della gara.
A ciò si aggiunge un’altra ragione di insostenibilità, quella economica. Perché il mercato dell’acciaio non tira più come prima. Non è credibile che Arcelor Mittal, il gigante mondiale dell’acciaio non avesse gli strumenti per prevederlo. Da qui il cinismo inquietante della sua offerta d’acquisto. Eliminare un concorrente è decisivo quando il mercato si restringe, per ridimensionare poi i propri impegni occupazionali invocando proprio la restrizione del mercato.
Ora siamo al dunque. Saggezza vorrebbe che il governo, la regione, i sindacati avessero una chiara posizione comune contro Arcelor che pretende per continuare qualche migliaio di licenziamenti, e non si dessero alibi ad Arcelor autoflagellandosi per aver fatto venir meno lo scudo penale, che non è, non è mai stata, la preoccupazione principale di Arcelor. Occorre inchiodarla alle sue responsabilità, che è prima di tutto quella di aver firmato un contratto che sapeva di non potere e non volere rispettare. E cominciare a pensare altre soluzioni, compresa la possibilità di una nazionalizzazione. Che è forse ormai l’unico modo per tenere insieme in maniera credibile per i lavoratori e i cittadini di Taranto l’interesse nazionale alla produzione di acciaio e le esigenze del territorio, con l’approntamento di un piano tecnologico che consenta una produzione il più possibile pulita, esplorando tutte le possibilità offerte dalla tecnologia, prendendo esempio da soluzioni già testate in altri Paesi europei, e offrendo ai giovani di Taranto altre possibilità di lavoro, oltre la monocultura dell’acciaio. Facendo della crisi dell’ILVA la prima occasione concreta di sperimentazione del green new deal di cui tutti parlano, ma che esiste solo se c’è una nuova e orientata presenza pubblica nell’economia.