La discontinuità alla prova della scuola
La bozza dell’accordo di governo tra M5S e Pd parla esplicitamente di “maggiori risorse per scuola, università, ricerca”. E aggiunge inoltre che la scuola è “bene comune”. Ne prendiamo atto. Ma se le risorse finanziarie sono essenziali, non sono tutto. E' necessaria una visione globale.
Andrea Ranieri e Francesco Sinopoli
Sarebbe un vero segno di discontinuità se questo governo riuscisse a far passare scuola, ricerca, università dal novero delle priorità predicate a quello delle priorità praticate. Perché tutti i governi degli ultimi anni hanno messo al primo posto nei loro programmi l’istruzione e se ne sono dimenticati nelle leggi di bilancio. Quest’anno la presentazione del programma coinciderà più o meno con la legge di bilancio. Una grande occasione per toccare con mano se la priorità annunciata avrà a disposizione le risorse necessarie, prima di tutto per iniziare a colmare il gap con la maggior parte delle altre nazioni europee. La bozza dell’accordo di governo tra M5S e Pd circolata ieri parla esplicitamente, al punto 1, di “maggiori risorse per scuola, università, ricerca”. E aggiunge inoltre che la scuola è “bene comune”. Ne prendiamo atto. Ma se le risorse finanziarie sono essenziali, non sono tutto.
E magari per chiedere su questo, e sugli investimenti necessari al decollo della riconversione verde dell’economia, la flessibilità necessaria all’Europa. Sono questi i temi centrali per un’uscita dall’austerity alternativa alla logica dei nazionalisti.
Ma se le risorse finanziarie sono essenziali, purtuttavia non sono tutto. Il sistema dell’istruzione italiano ha dovuto sopportare in questi anni il peso di riforme che sembravano avere come unico scopo quello di adattarlo al mondo così com’è, e alle ideologie che lo hanno reso tale. L’individualismo, la meritocrazia, il crescere vertiginoso delle disuguaglianze, che il sistema educativo si limitava nella maggior parte dei casi a registrare. È ora di riprendere una riflessione su come l’istruzione possa essere strumento centrale di contrasto alle disuguaglianze e fucina di pensiero critico, perché solo una scuola che pensa che il cambiamento è possibile e che dà agli strumenti per cambiare il mondo è la “buona scuola”.
È giunta l’ora di dirsi con chiarezza che un’istruzione che fa della frammentazione disciplinare la ragione fondamentale della trasmissione del sapere e della sua stessa organizzazione interna amplifica le disuguaglianze fra chi ha a casa qualcuno in grado di aiutare i ragazzi a ricomporre un sapere frammentato e chi la frammentazione la subisce. Nel passaggio dalla scuola primaria (elementari), che è ancora una scuola dell’apprendimento e della centralità del bambino, alla scuola secondaria di primo grado (medie), che è scuola dell’insegnamento disciplinare, calano le competenze degli studenti e in maniera diversificata rispetto al livello sociale e culturale delle famiglie, disuguaglianze che segneranno poi l’intera carriera scolastica dei ragazzi e la loro stessa possibilità di scegliere. Come evitare i salti fra i diversi ordini? Con una organica riforma dei cicli, rendendo la comprensività fra scuole primarie e secondarie di primo grado un orientamento didattico vincolante e non un semplice fatto burocratico amministrativo utile a tagliare risorse. La risposta legislativa a questo quesito di fondamento, di senso e di struttura, dovrebbe essere una priorità della prossima azione di governo.
Tutto ciò avrebbe bisogno di una didattica nuova, che rompa a tutti i livelli l’individualismo docente e discente. Superando la lezione frontale e l’interrogazione individuale come modalità didattica prevalente, e scegliendo e incentivando la nascita della cooperazione educativa, che chiami tutte le discipline ad un lavoro comune mirato a sviluppare le diverse capacità dei diversi studenti. Questa capacità di mettere al centro lo studente non come una lavagna vuota su cui scrivere il sapere disciplinare, ma come un pieno di esperienze di vita tutte diverse e non gerarchizzabili, è condizione di un progetto per il superamento delle disuguaglianze, innestato sul riconoscimento delle diversità. Un progetto ancora più necessario nel momento in cui la scuola italiana fa i conti e sempre di più li farà in futuro con studenti provenienti da altri paesi e culture. La scuola è il terreno fondamentale su cui si gioca la grande partita dell’accoglienza.
Ma la cooperazione educativa è anche la condizione per mettere la scuola al livello dei problemi che oggi una gran parte di studenti, quelli che scioperano al venerdì per il clima, sentono come prioritari. Altro che adattarsi al mondo, ma come evitare che il genere umano distrugga il mondo e distrugga se stesso. A questo compito possono e devono collaborare in un progetto unitario le discipline. Le scienze, la storia, l’arte, la poesia, le tecniche del saper fare, possono concorrere a ridare alla scuola un progetto educativo unitario che risponda alla domanda più drammatica del nostro presente. “Come cambiare il nostro modo di produrre, di consumare, di vivere per ridare un futuro alle piante, agli animali, al paesaggio del nostro mondo, a no stessi?”. E ci pare anche il modo con cui la scuola può dare senso a quella invocazione di un nuovo umanesimo che è partita dal premier incaricato a formare il nuovo governo.
Una scuola di questo tipo non può essere delineata solo dal centro. Ha bisogno di mobilitare l’intelligenza di tutti, docenti e studenti, a partire dalle scuole che questa dimensione cercano già di praticarla. Ha bisogno di autonomia, non in una logica aziendale e mercatistica, ma come comunità di persone che partecipano ad un progetto educativo comune. E ha bisogno del territorio. Di comuni soprattutto che mettano a disposizione della scuola le opportunità educative presenti nel territorio. Tutte le ricerche ci dicono che la capacità delle scuole di rispondere al proprio compito primario, di ridurre le disuguaglianze e sviluppare il pensiero critico, dipende anche dal peso che danno le città e i paesi alla scuola nei propri progetti di sviluppo economico e sociale. E alla presenza di istituzioni culturali, dalle biblioteche pubbliche, ai musei, ai cinema, ai teatri nei diversi territori. Incentivare i comuni ad adempiere a questo compito, superando le disuguaglianze tra di loro e fra le diverse aree geografiche nel fornire i servizi essenziali al conseguimento dei risultati, dovrebbe essere un altro indirizzo fondamentale di una nuova politica di governo. Il contrario dell’autonomia differenziata che sostituisce o sovrappone al centralismo statale un nuovo centralismo regionale che finirebbe per rendere irreversibili le disuguaglianze.