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La lezione che ci viene dal degrado

di MARIA PIA VELADIANO

01/06/2014
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la Repubblica

PER arrivare
a questo risultato è stato indispensabile un impegno collettivo davvero ragguardevole. Sindaci e amministrazioni dalle cinquanta e più sfumature di ideologie che hanno sistematicamente ritenuto più importante asfaltare campagne per la comodità dei loro elettori e lastricare piazze per la sagra dello gnocco fritto, governanti di corso lungo-lunghissimo oppure più o meno novelli che nel loro (per quanto breve) permanere in Parlamento han trovato modo di dissimulare “riforme” scolastiche nello spazio bianco fra due articoli di legge finanziaria, elettori, e molti erano ben genitori, che hanno ostinatamente votato chi questo faceva e questo prometteva di fare.
Se il 58% delle nostre scuole non è a norma, e molte di queste sono un vero pericolo, è perché un mare di persone per un mare di anni non ha ritenuto importante investire lì e un mare di altre gliel’ha permesso. Adesso un pezzo di verità è che a voler prendere in mano la scuola non si sa da che parte cominciare. Arrivano i dati Ocse e ci dicono che siamo in fondo per gli apprendimenti. Arriva il rapporto Censis e scopriamo che stare seduti in classe è più pericoloso che andare in bici in tangenziale. Ma un altro pezzo di verità è che bisogna avere la pazienza di distinguere. C’è purtroppo una geografia dell’insuccesso scolastico, che in parte, non sempre, anche qui si deve distinguere, in parte coincide con la geografia del degrado delle scuole. Perché esistono regioni e comuni che nelle scuole hanno sempre investito. Questi con lo sblocco del patto di stabilità a favore della scuola potranno (meritoriamente) investire nel perfezionamento del cappotto termico della loro scuola e acquisire meriti ecologici, altri potranno forse far smettere di piovere in aula. E poi: un conto è il degrado estetico, che conta eccome, ma che può essere combattuto e non esibito. Le pareti scrostate possono essere coperte di disegni di bimbi, o di carte geografiche. Ma altra cosa è il pericolo. Abbiamo costruito un mondo di strade, spazi pubblici, piazze, in cui bambini, persone, e anche animali, sono un fastidioso problema di sicurezza da risolvere. Per cui a scuola li portiamo in macchina i figli, e chissaquando diventano autonomi. Ma dobbiamo pensare che almeno in classe poi stanno al sicuro, abbastanza. Che i muri non crollano. E allora? E allora va certo bene liberare risorse per le scuole, da qualche parte bisogna cominciare e però ci vorrebbe qui un (impopolare) frullato di solidarietà nazionale. Perché vien da dire che sarebbe ovvio finanziare prima di tutto le 3600 scuole che hanno problemi alle strutture portanti e sembra incredibile che possano esistere scuole così. Far partire con il piano straordinario per l’edilizia scolastica anche un piano straordinario di condivisione, fra chi la scuola l’ha sempre avuta in mente e chi invece, sciaguratamente, no. Perché i bambini son bambini, tutti ugualmente pieni di diritti. E la favola della cicala e la formica è solo un mostruoso inno all’egoismo che uccide la convivenza. Che uccide e basta.